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La morale sessuale, familiare e della
vita fisica
Programma del corso
1. Vita e sessualità nel disegno di Dio: dono e compito
2. Vocazione all’amore: matrimonio e famiglia. Fedeltà e apertura
alla vita
3. Problemi di morale sessuale: masturbazione, omosessualità,
rapporti pre-matrimoniali
4. Accoglienza della vita: procreazione, fecondazione artificiale,
aborto
5. Genetica e rispetto dell’embrione: diagnostica pre-natale,
clonazione, cellule staminali
6. Salute e malattia. Diritti del paziente. Donazione e trapianto
di organi
7. Al termine della vita: eutanasia, accanimento terapeutico
e cura del malato terminale
8. L’uomo e il suo ambiente
Testi consigliati
*ARAMINI M., Manuale di bioetica per tutti, Paoline, Milano 2006.
COMPAGNONI F. - PIANA G. - PRIVITERA S. (edd.), Nuovo dizionario di teologia morale, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1999(4).
DIANIN G., Matrimonio, sessualità, fecondità. Corso di morale familiare, Messaggero, Padova 2006.
DOLDI M., Bioetica per giovani, Piemme, Casale M. (AL) 2001 (= D).
ID., 50 risposte sull’amore e l’affettività, Piemme, Casale M. (AL) 2002.
GATTI G., Manuale di teologia morale, LDC, Leumann (TO) 2001, pp. 231-269; 366-461.
LEONE S., Educare alla sessualità, Dehoniane, Bologna 2000.
ID., Manuale di bioetica, Ist. Sic. di Bioetica, Acireale (CT) 2003.
ID. - PRIVITERA S. (edd.), Nuovo dizionario di bioetica, Città Nuova-Ist. Sic. di Bioetica, Roma-Acireale (CT) 2004.
LUCAS LUCAS R. (ed.), Bioetica per tutti, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2002.
MARTINI C.M., Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000.
MELINA L. (ed.), L’agire morale del cristiano, Jaca Book, Milano 2002, pp. 119-309 (= M).
MURARO G., La morale familiare..., San Paolo, Cinisello B. (MI) 1999.
PADOVESE L., Uomo e donna a immagine di Dio…, Messaggero, Padova 20013.
PONT. CONS. PER LA FAMIGLIA [ed.], Famiglia e questioni etiche, Dehoniane, Bologna 2004.
ID. (ed.), Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Dehoniane, Bologna 2003.
RUSSO G. (ed.), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, LDC-Velar-CIC, Leumann (TO) 2004.
SGRECCIA E., Manuale di bioetica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 2002-20033.
TETTAMANZI D., Dizionario di bioetica, Piemme, Casale M. (AL) 2002.
ZUCCARO C., La vita umana nella riflessione etica, Queriniana, Brescia 20032.
Documenti magisteriali
Catechismo della Chiesa cattolica, LEV, Città del Vaticano 1999, nn. 2196-2400; 2514-2533.
CEI, Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, Fondaz. di religione «Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena», Roma 1993 (= DPF).
S. CONGR. PER LA DOTTR. DELLA FEDE, Dichiaraz. Quaestio de abortu sull’aborto procurato, 18/11/1974: EV 5/662-688 (= De ab. proc.).
*ID., Dichiaraz. Persona humana su alcune questioni di etica sessuale, 29/12/1975: EV 5/1717-1745 (= PH).
ID., Dichiaraz. Iura et bona sull’eutanasia, 5/5/1980: EV 7/346-373 (= IeB).
ID., Istruz. Donum vitae sul rispetto della vita umana nascente…, 22/2/1987: EV 10/1150-1253 (= DnV).
*GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Familiaris consortio, 22/11/1981: EV 7/1522-1810 (= FC).
ID., Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova, Roma 20015.
*ID., Lett. enc. Evangelium vitae, 25/3/1995: EV 14/2167-2517 (= EvV).
*PAOLO VI, Lett. enc. Humanae vitae, 25/7/1968: EV 3/587-617 (= HV).
PONT. ACADEMIA PRO VITA, Riflessioni sulla clonazione, 24/6/1997: EV 16/587-605.
ID., La produzione delle cellule staminali, 24/8/2000: EV 19/1223-1243 (= PCS).
P. CONS. PER LA FAMIGLIA (ed.), Enchiridion della famiglia. Documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita. 1965-2004, Dehoniane, Bologna 20042 (= EF).
Siti
http://www.bioeticacristiana.it/homep.htm
http://www.mpv.org/
http://www.teologiaperlaicibs.org/moraleb.htm
La morale sessuale, familiare
e della vita fisica
1. Vita e sessualità nel
disegno di Dio: dono e compito
1.1. Vita, sesso e amore
tra minacce e “idolatria”. Il clima culturale del nostro tempo
La situazione attuale interpella la Chiesa ad un impegno che
le consenta di cogliere le “sfide” della cultura contemporanea
al messaggio cristiano, e di offrire le necessarie risposte,
soprattutto rimettendo a fuoco teologicamente i valori permanenti
coinvolti.
Infatti, un’adeguata comprensione dei mutamenti che coinvolgono
la percezione di valore ed i comportamenti riguardanti la
vita, la sessualità, la famiglia non è, per la stessa Chiesa,
una sorta di “lusso” intellettuale, né un semplice esercizio
culturale. Conoscere la realtà è di importanza determinante
anche per l’azione pastorale della comunità cristiana, perché
c’è altrimenti il rischio di rivolgersi ad una persona immaginaria,
non a quella reale: da questo deriva l’impressione (per essere
benevoli!) di genericità ed a volte di astrattezza del messaggio
proposto e la risonanza limitata che esso ha nel cuore delle
persone con le quali la Chiesa entra in contatto.
Quali sono i caratteri più salienti del clima culturale odierno?
Senza dubbio siamo inseriti in una società pluralista e complessa,
in cui sono presenti contemporaneamente visioni del mondo
assai diversificate e per nulla gerarchicamente coordinate.
Il pluralismo culturale si coniuga ad un soggettivismo pragmatista.
Il metro della valutazione di sé e della stessa realtà diventa
l’“esperienza personale”. L’individuo diventa l’unico giudice
che le conferisce valore. Si assiste ad una drammatizzazione
del proprio vissuto, che viene enfatizzato e talora anche
mitizzato, quale fonte di gratificazione personale e base
per la propria identità e stabilità psicologica. Il concetto
esasperato di soggettività favorisce la dissociazione tra
libertà e verità, e quindi una concezione distorta di libertà
che trasforma la convivenza sociale (cf. EvV 18-20; EV 14/2218-2230;
EF 1161-1173).
A ciò si aggiunga lo stile della società consumista. L’industrializzazione
ha permesso di avere a disposizione un numero considerevole
di beni di consumo a prezzi accessibili, dando così origine
ad una vera e propria sete di consumare e di godere. Infatti,
consumi facili sono divenuti sinonimo di possibile godimento.
Sono apparsi in tal modo nella nostra società nuovi valori,
come la ricerca di beni voluttuari e di una qualità di vita
che si misura non attraverso la vera qualità umana (padronanza
di sé, generosità, ecc.), ma con la facilità di vivere a proprio
agio, senza alcuna costrizione. L’unico vero male viene ritenuto,
in ultima analisi, ciò che appare fastidioso.
Vita, amore, sessualità sono considerati in modo nuovo, anche
rispetto ad un recente passato.
Nel nostro tempo in alcuni casi la vita fisica, in particolare
il “corpo”, è oggetto di eccessiva preoccupazione (salute,
bellezza, sport...); in altri emergono segni di una “cultura
di morte”.
Un elenco non certo esaustivo non può fare a meno di comprendere:
guerre, conflitti etnici, “corsa agli armamenti”, fame e malattie;
violenze quotidiane, criminalità, violazione dei diritti fondamentali
dell’uomo. Non vanno però dimenticati fenomeni quali la diffusione
dell’aborto e della contraccezione (mali morali specificamente
diversi, ma strettamente connessi a livello di mentalità);
la massiccia pianificazione delle nascite come risposta al
problema demografico; le varie tecniche di riproduzione artificiale
e diagnosi prenatali con i connessi attentati alla vita. Last
but not least, assistiamo anche alla perdita di senso della
vita malata e tentazione (se non fatto!) dell’eutanasia per
i malati inguaribili ed i morenti.
Per quanto riguarda l’amore, va notata una certa (o forte?)
“riduzione” alla sua fase sessuale, oltretutto non considerata
con serenità. Infatti, spesso:
- la sessualità viene messa al servizio del consumo, e diviene
“consumo” essa stessa: ne sono indicatori i mercati della
pornografia, la pubblicità, la mercificazione del corpo, l’erotismo
in genere;
- la relazione sessuale diventa un bene da consumarsi subito,
venendo privata di quella prospettiva a lunga scadenza, che
è maturativa nella formazione della personalità in via di
sviluppo;
- i modelli di comportamento si appiattiscono su quelli dettati
dalla pubblicità.
Naturalmente, anche matrimonio e famiglia conoscono significativi
segni di “crisi”. Lo stesso Papa, trattando dei compiti della
famiglia cristiana nel mondo di oggi, innanzitutto esamina,
insieme alle “luci”, anche le “ombre della famiglia oggi”
(cf. FC 4-10; EV 7/1532-1556; EF 482-506).
La famiglia infatti, come e forse più di altre istituzioni,
è oggi investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni
della società e della cultura. Basti ricordare il ricorso,
ormai non più raro, alla convivenza, al divorzio, oltre che
all’aborto ed alla contraccezione, già accennati. La cronaca
continuamente porta alla ribalta episodi di rifiuti del matrimonio,
di violenza familiare, di uccisione della vita nel grembo
della madre, di abbandono di neonati. Fedeltà reciproca degli
sposi per tutta la vita ed apertura generosa al dono dei figli
vengono sempre più contestati.
Le cause di questa “trasmutazione” di valori, come sopra riconosciuto,
sono soprattutto d’indole culturale, sociale e politica. In
ultima analisi però l’eclissi del giusto valore della vita,
della sessualità e dell’amore scaturisce dall’eclissi del
senso di Dio e dell’uomo, come esito del secolarismo. L’uomo
si percepisce come un semplice organismo, un oggetto. Sfuggendo
al mistero, anche le esperienze umane (nascita, sofferenza,
morte) diventano “oggetti”, cose che si pretende di “possedere”
o di “rifiutare”. I valori dell’“essere” lasciano il posto
a quelli dell’“avere” (cf. EvV 21-24; EV 14/2231-2244; EF
1174-1187).
Non sono infrequenti le contestazioni nei confronti dell’insegnamento
morale nemmeno tra i cristiani. Il rapporto fra messaggio
cristiano ed etica della sessualità, in particolare, che -
si può dire - ha sempre conosciuto difficoltà, pare però esser
divenuto apertamente conflittuale.
Occorre però anche notare nel nostro tempo la presenza di
altri “segni”.
L’accentuata personalizzazione porta a far avvertire sempre
di più all’uomo il senso della propria separatezza e della
propria solitudine, mentre i progressi della scienza e della
tecnica inducono l’umanità a ricercare con ansia crescente
valori umani autentici.
Così, la nuova cultura del “corpo”, se può condurre alla dimenticanza
di valori più propriamente spirituali, può però anche portare
alla scoperta del corpo nella sua differenza e ricchezza,
nel suo appello all’incontro con l’altro, nell’esser luogo
di bisogni e desideri non riducibili alla razionalità tecnologica
e strumentale.
Nel nostro tempo l’amore pare assumere una nuova centralità.
Una profonda modifica dei comportamenti, soprattutto giovanili,
non sempre in senso positivo, è avvenuta sotto l’influsso
degli avvenimenti (quali quelli correlati alla “contestazione”
del ’68) e delle acquisizioni delle scienze umane ed in particolare
di quelle psicologiche (basti ricordare Autori come lo psicanalista
Wilhelm Reich [1897-1957; sua è La rivoluzione sessuale, 1936]
ed Herbert Marcuse [1898-1979; autore di Eros e civiltà, 1955
e L’uomo a una dimensione, 1964]).
Vanno segnalati anche segni di speranza nell’ambito della
famiglia e dell’accoglienza alla vita, come la diffusione
di CAV, di gruppi di volontariato, di apertura all’adozione
ed all’affido. Non mancano pure gesti che denotano una crescita
della coscienza sociale nei confronti del valore della vita,
della pace, dell’attenzione verso i malati ed i poveri, della
qualità della vita e dell’ambiente.
Il panorama che ci sta dinanzi è dunque assai composito. Il
primo passo da compiere, in ogni caso, è una riflessione su
tali realtà alla luce del disegno di Dio e delle più profonde
esigenze umane.
1.2. Il messaggio rivelato
sulla vita e sull’amore
Una corretta visione dell’etica cristiana riguardante la vita
e la sessualità si colloca e si comprende solamente all’interno
del quadro dell’amore di Dio e del prossimo, così come ci
è rivelato nella Scrittura.
La Bibbia è il racconto di come l’intera storia umana abbia
contenuto un particolare filone di storia (quella del popolo
eletto), nel quale Dio stesso si è progressivamente rivelato
come Amore, e all’interno del quale gli uomini hanno imparato
ad amarlo e ad amarsi tra loro. È una “storia sacra” che può
essere letta proprio come storia di educazione all’amore.
In un contesto, in cui si interroga sulle ambivalenze della
storia - amata da Dio, eppure carica di peccato ed ingiustizie;
portatrice della promessa di Dio, eppure deludente - la Bibbia
si interroga anche sulla vita e sull’amore. Tali grandi realtà
hanno un volto positivo e negativo, rivelano un progetto di
Dio ed insieme lo nascondono, racchiudendo in sé la capacità
di smentirlo. Da una parte l’uomo può cogliere il disegno
di Dio ed il suo amore, dall’altra la forza del peccato.
a) Alle origini
Dalla Bibbia emerge un senso profondo della vita in tutte
le sue forme, ed un senso acuto di Dio, che rivelano nella
vita, ricercata instancabilmente dall’uomo, un dono sacro
in cui Dio fa risplendere il suo mistero e la sua generosità.
Il Dio della Bibbia è “il Dio vivente” (Gs 3,10; Sal 41 [42],3).
La sua opera è particolarmente evidente nei racconti della
creazione.
Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a; trad. P: ca VI sec. a.C.)
la vita compare nelle ultime tappe, come suo coronamento.
Nel quinto giorno nascono “i grandi mostri marini e tutti
gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque” (Gen
1,21) e gli uccelli. A sua volta la terra produce altri esseri
viventi (Gen 1,24).
La creazione dell’“uomo” è posta al culmine della creazione:
“E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza e domini sui pesci del mare…’
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò”: Gen 1,26-27.
In ebraico il vocabolo “immagine” (selem) rimanda a una statua
che, nel realismo simbolico semitico, si avvicina fortemente
al soggetto raffigurato. Il termine “somiglianza” (demût)
invece indica distanza ed esclude l’identità totale. L’uomo
è perciò la rappresentazione più somigliante di Dio che si
possa concepire, è un interlocutore, colui che può ascoltare
la Parola di Dio e rispondere, ma non è Dio.
Non va dimenticato che l’immagine di Dio si compirà perfettamente
in Cristo, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). L’uomo
trova, perciò, il senso ultimo della sua esistenza in Cristo,
il Figlio di Dio che si fa uomo, perché noi diventiamo figli
di Dio (cf. Gal 4,5).
L’uomo è il capolavoro di Dio: delle altre opere il Creatore
“vide che era cosa bella-buona [tôb]” (Gen 1,4ss); dell’uomo
si dice: “ed ecco, era cosa molto buona-bella” (Gen 1,31).
In quanto “immagine” di Dio, che è nella sua natura profonda
amore, dialogo, l’uomo non è fatto per la solitudine. Sin
dalla creazione infatti è tale “immagine” nella dualità di
“maschio e femmina”. La “dialogicità” dei sessi si apre già
al dono, all’amore. Nella benedizione della fecondità la sessualità
ha indicato il suo sbocco e la sua finalità specifica: la
trasmissione della vita. Un compito talmente grande che richiede
la “benedizione” di Dio
“Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia
sulla terra’”: Gen 1,28.
Inoltre, come Dio è Creatore del mondo, così l’uomo è chiamato
col suo lavoro a collaborare con Dio nell’opera di trasformazione
dell’universo (cf. Gen 1,28). La Chiesa, perciò, prega: “Padre
santo,... a tua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani
operose hai affidato l’universo, perché, nell’obbedienza a
te, suo Creatore, esercitasse il dominio sul creato” (MR,
Pregh. eucaristica IV).
Anche il secondo racconto della
creazione (Gen 2,4-25, parte di Gen 2,4b-3,24; trad. J: ca
X sec. a.C.) ci offre un interessante abbozzo antropologico:
l’uomo appare, in Adamo, costituito secondo tre dimensioni
fondamentali: in relazione con Dio, con i fratelli, con il
cosmo.
- La relazione con Dio è essenziale, costitutiva. Lo indica
la stessa origine dell’uomo: tratto dal fango della terra,
egli deve la sua esistenza al soffio di JHWH:
“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo
e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne
un essere vivente”: Gen 2,7.
L’uomo, perciò, per la sua stessa origine, è un essere costituzionalmente
dipendente da Dio. Egli non può mettersi al suo livello, ma
deve riconoscere la sua creaturalità. L’obbedienza alla volontà
di Dio (“dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente
moriresti”: Gen 2,17) è conseguenza di tale legame essenziale.
- L’uomo è chiamato ad uscire dalla sua solitudine: “Non è
bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). La Bibbia non si vergogna
di mettere in luce l’aspetto di povertà, di bisogno dell’uomo:
“Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior
compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno
rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha
nessuno che lo rialzi” (Qo 4,9-10).
“Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18b):
l’espressione (kenegdô: che stia “di fronte”; “a lui corrispondente”),
comporta sia l’idea di uguaglianza che quella di completamento.
Essa va certamente al di là della sfera puramente sessuale,
per indicare che l’incontro è indispensabile all’uomo per
trovare salvezza. La solitudine è povertà, incapacità. L’uomo
non è progettato autosufficiente.
- JHWH pone l’uomo al centro della creazione, perché la coltivi,
domini e conservi. Adamo, chiamando per nome gli animali,
esprime la propria sovranità (cf. Gen 2,19-20).
Ma l’“aiuto a lui corrispondente”” viene offerto solo con
la creazione della donna:
“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo,
che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse
la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola
che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”:
Gen 2,21-22.
Il linguaggio carico di immagini afferma che la donna non
è estranea all’uomo, anzi è come una “parte” di lui, con la
medesima dignità, capace di dialogare e di amare. Al di là
del linguaggio utilizzato, si vuol dire che uomo e donna hanno
la stessa natura e, dunque, la stessa dignità. Così si spiega
l’attrazione e l’unione profonda che si stabilisce tra i due.
Perciò l’uomo intona il primo “canto nuziale” dell’umanità:
“
Questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie
ossa. La si chiamerà donna, poiché dall’uomo è stata tolta”:
Gen 2,23.
L’ultima frase in ebraico contiene un gioco di parole non
traducibile (’îš - ’iššah = uomo-donna). Anche con questa
assonanza linguistica l’autore vuole esprimere l’unità dei
due sessi, pur nella loro distinzione. Il versetto conclusivo
descrive, in stile sapienziale, non solo il fatto della mutua
attrazione, ma il suo senso: la fondazione di una famiglia:
“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”: Gen 2,24.
In tal modo si evidenzia l’unicità esclusiva del rapporto
e la sua indissolubilità. Il progetto di Dio sottolinea dunque:
uguaglianza di dignità, mutuo aiuto, proposta di divenire
un solo essere vivente.
La lettura unitaria dei due racconti della creazione conducono
a considerare come l’equilibrio dei due elementi (unitivo
e procreativo) deve segnare per sempre il matrimonio, quale
Dio lo ha concepito nel suo disegno originario.
Il peccato (Gen 3) infrange
questo equilibrio. Emerge così la vergogna di fronte alla
nudità, la divisione fra l’uomo e la donna, la “distorsione”
della sessualità dai suoi fini propri, come si coglie dalle
parole del castigo:
“Alla donna disse: ‘Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze…
Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”:
Gen 3,16.
Invece che dono reciproco e sereno, la sessualità diventa
strumento di dominio. Per questo sarà necessario rieducare
l’amore.
Con il peccato non si incrina solo il rapporto inter-umano,
ma anche con la terra. Compaiono così la fatica e la morte:
“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai
alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei
e in polvere tornerai!”: Gen 3,19.
b) Lo sviluppo
Per la Scrittura la vita è cosa preziosa, desiderata e cosa
sacra. Ogni vita viene da Dio, ma il soffio dell’uomo ne viene
in un modo tutto speciale: abbiamo visto come per farne un’anima
vivente, Dio ha soffiato nelle sue narici un alito di vita
(Gen 2,7; Sap 15,11).
La parola rivelata usa più termini per indicare l’uomo: egli
è carne, anima, spirito. I diversi termini non indicano “parti”
dell’uomo, ma situazioni vissute da tutto l’io in rapporto
a JHWH. Così l’uomo è carne (essere mortale, legato alla terra),
anima (dinamismo vitale diffuso in tutta la persona), e spirito
(vita collegata alla sua sorgente divina).
Persino la vita dell’animale ha qualcosa di sacro; l’uomo
si può nutrire della sua carne, a condizione che ne sia stato
fatto uscire tutto il sangue, perché “la vita della carne
è nel sangue” (Lv 17,11; cf. Gen 9,4); e proprio mediante
questo sangue l’uomo entra in contatto con Dio nei sacrifici.
Ma la vita è anche cosa fragile. Tutti gli esseri viventi,
e l’uomo stesso, non posseggono la vita che a titolo precario.
Essi sono, per natura, soggetti alla morte. Questa vita di
fatto è dipendente dal respiro, cioè da quel soffio fragile,
indipendente dalla volontà e che un nulla basta a spegnere.
Dono di Dio (Is 42,5), questo soffio non cessa di dipendere
da lui (Sal 103 [104],29-30), che fa morire e fa vivere (cf.
Dt 32,39). Effettivamente la vita è breve (Gb 14,1), un semplice
fumo (Sap 2,2), un’ombra (Sal 143 [144],4). Sembra persino
che essa non abbia cessato di diminuire dalle origini (cf.
Gen 6,3; 47,9). Ormai anche 70 od 80 anni, sono diventati
un massimo (cf. Sal 89 [90],10).
Preziosa e fragile, la vita è difesa da Dio: egli prende sotto
la sua protezione la vita dell’uomo e vieta l’uccisione (Gen
9,5-6; Es 20,13), anche quella di Caino (Gen 4,15). Anche
dopo aver vietato all’uomo peccatore l’accesso all’albero
della vita, Dio non rinuncia ad assicurare all’uomo la vita.
In attesa di dargliela mediante la morte del suo Figlio, Egli
propone al suo popolo “le vie della vita” (cf. Sal 15 [16],11;
Dt 30,15), che sono le leggi della giustizia.
Donandogli la vita, Dio esige dunque dall’uomo che la ami,
la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento,
e il comandamento è esso stesso un dono. Un comandamento mai
separato dall’amore di Dio: si tratta sempre di un aiuto per
la crescita e la gioia dell’uomo. La vita umana è sacra ed
inviolabile: questi caratteri, iscritti fin dalle origini
nel cuore di ogni uomo, sono fissati nel Decalogo (“Non uccidere”:
Es 20,13) e protetti sia dal “no” all’omicidio, che dal “sì”
all’amore verso il prossimo.
D’altronde questa vita, benché sia vissuta tutta sulla terra,
non trova nutrimento in primo luogo nei beni della terra,
ma nell’attaccamento a Dio “sorgente della vita” (Sal 35 [36],10),
la cui grazia “vale più della vita” (Sal 62 [63],4).
Più che della vita felice nella sua terra, Israele peccatore
fa però l’esperienza della morte. Tuttavia Dio persiste nel
chiamarlo alla vita. I profeti lo chiamano a “convertirsi
ed a vivere” (cf. Ez 33,11; le ossa aride: Ez 37,1-14; il
servo di JHWH: Is 53). La persecuzione farà comprendere che
si può morire per essere fedeli a Dio: la morte “per Dio”
non separa da lui, ma porta alla vita mediante la risurrezione
(cf. 2Mac 7,23.36). Le anime dei giusti sono fin d’ora “nelle
mani di Dio” (Sap 3,1).
Il dono della vita è dono d’amore. La Bibbia infatti è narrazione
di una “storia d’amore” (abbastanza movimentata!) tra Dio
e il suo popolo, in cui matrimonio e famiglia sono inseriti.
Dio si rivela progressivamente come Amore; gli uomini imparano
ad amarlo e ad amarsi tra loro.
L’amore di Dio si rivela nella Legge che, tra le dieci parole,
ne ha alcune specialmente dedicate al rispetto del matrimonio
e della famiglia (cf. Es 20,12.14.17).
I profeti, in particolare, si servono della realtà matrimoniale
per condurre alla comprensione dell’amore di Dio, della comunità
di grazia tra JHWH ed Israele (cf. Os 1-3; Is 54,5-10). Anche
l’esperienza negativa dell’infedeltà e del tradimento si presta,
paradossalmente, a rilevare l’amore e la fedeltà senza pentimenti
da parte di Dio. Osea giunge a sottoporre la classica categoria
teologica dell’alleanza ad un’originale reinterpretazione.
Al linguaggio dell’alleanza (presentata nei patriarchi ed
al Sinai con connotati di stampo politico-militare) si intreccia
quello nuziale: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia
sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore”
(Os 2,21).
I testi “sapienziali” dal canto loro esprimono il valore e
la bellezza dell’amore e della relazione interpersonale che
unisce gli sposi (cf. Tb 8,6.17; Pr 5,15-19; Qo 9,9; Sir 36,22-25).
Nonostante le diverse condizioni culturali e sociali, e l’ottica
maschile che predomina nel discorso, la letteratura sapienziale
esprime il valore e la bellezza dell’amore e della relazione
interpersonale che unisce gli sposi, nell’ottica della buona
riuscita dell’uomo nella vita. Ciò spiega la felicità che
nasce dall’avere accanto una donna virtuosa ed una numerosa
discendenza:
“Chi ha trovato una moglie ha trovato una fortuna, ha ottenuto
il favore del Signore” (Pr 18,22).
“La tua sposa come vite feconda, nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa…
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli”: Sal 127 (128),3.6.
“Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del
grembo” : Sal 126 (127),4.
Il Cantico dei cantici può essere considerato come l’espressione
più ricca e completa del tema nuziale. Si tratta di una celebrazione
dell’amore umano, in cui la tradizione ebraico-cristiana ha
letto una grande allegoria del rapporto sponsale fra Dio ed
il suo popolo. Un amore umano, dunque, nel quale, però, si
legge il mistero dell’amore di Dio. Il Cantico contiene espressioni
ineguagliate sul mistero dell’amore-comunione, che lega per
sempre due persone: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come
sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe
di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono
spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6-7).
c) Nella pienezza del tempo (cf. Gal 4,4)
Con la venuta del Salvatore, le promesse diventano realtà.
Gesù annuncia la vita perché Dio “non è un Dio dei morti ma
dei viventi” (Mc 12,27p.). Da un lato ribadisce la validità
del comandamento “non uccidere”; dall’altro esige una “giustizia
superiore” (cf. Mt 5,21-22). Nello stesso tempo, egli esplicita
le esigenze positive del comandamento, dando loro vigore e
profondità (cura del fratello, estraneo, amore del nemico).
Egli stesso guarisce e restituisce la vita. Questo potere
di dare la vita è il segno che egli ha potere sul peccato
(cf. Mt 9,6) e che apporta la vita che non muore, la “vita
eterna” (cf. Mt 19,16p.; 19,29p.), la vera vita. Per entrarvi
e possederla bisogna prendere la via stretta, sacrificare
tutte le proprie ricchezze, persino la vita presente (cf.
Mt 7,14; Mt 16,25-26).
Gesù non solo annuncia ed opera ma è nella sua stessa persona
il “Vangelo della vita”, il “Verbo della vita” (1Gv 1,l).
“Parola fatta carne” (cf. Gv 1,4.14), egli dona la vita in
abbondanza (cf. Gv 10,10) a tutti coloro che il Padre suo
gli ha dato (cf. Gv 17,2). Egli è “la via, la verità e la
vita” (Gv 14,6), “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Egli
dà un’acqua viva che diventa “sorgente di acqua che zampilla
per la vita eterna” in colui che la riceve (Gv 4,14). “Pane
della vita”, egli dà a colui che mangia il suo corpo di vivere
per mezzo suo, come egli vive per il Padre (Gv 6,48.57). Ciò
suppone la fede: chi vive e crede in lui, non morirà in eterno
(cf. Gv 11,25-26).
Ciò che richiede, Gesù lo fa per primo; ciò che annunzia,
lo dà. Liberamente, per amore verso il Padre e verso i suoi,
come il buon pastore per le sue pecore, Gesù offre la sua
vita (= “la sua anima”: cf. Gv 10,11; 1Gv 3,16). Ma lo fa
per far dono della vita a tutti coloro che credono in lui.
Gesù Cristo, morto e risorto, è “l’autore della vita” (At
3,15).
Proprio nella precarietà dell’esistenza umana Gesù porta a
compimento il senso della vita. Del resto, nel momento culminante
della Croce, Gesù rivela nella morte (ossia in un donarsi
che è fonte di vita) tutta la grandezza della vita. Il Vangelo
della vita si compie sull’albero della Croce.
Il passaggio dalla morte alla vita si ripete in colui che
crede in Cristo (Gv 5,24) e, “battezzato nella sua morte”
(Rm 6,3), “vive per Dio… in Cristo Gesù” (Rm 6,10-11). Egli
non vive più per se stesso, ma per colui che è morto e risuscitato
per lui (cf. 2Cor 5,15); per lui “il vivere è Cristo” (Fil
1,21).
Già in questa terra il cristiano, quanto più partecipa alla
morte di Cristo e porta le sue sofferenze, tanto più manifesta
la sua vita sin nel proprio corpo (cf. 2 Cor 4,10). La morte
corporale non indica una sconfitta della vita, ma la rende
stabile e la fa fiorire in Dio, che ingoia la morte nella
sua vittoria (cf. 1Cor 15,54-55). Paolo desidera morire per
“essere con Cristo” (Fil 1,23). Nella vita eterna si sarà
simili a Dio e lo si vedrà come egli è (cf. 1Gv 3,2), “a faccia
a faccia” (1Cor 13,12).
Questa vita avrà tutta la sua perfezione nel giorno in cui
il corpo stesso, risuscitato e glorificato, vi avrà parte,
quando si manifesterà Cristo la nostra vita (cf. Col 3,4),
nella Gerusalemme celeste. Allora non ci sarà più morte (cf.
Ap 21,4), e Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
La vita cristiana si delinea come sequela di Gesù, come partecipazione
profonda ai suoi Misteri ed imitazione del suo stile di esistenza,
che ha come motivo dominante l’agápe, l’amore.
Il principio etico fondamentale, la virtù sulla quale si impernia
la vita cristiana è dunque la carità. L’esistenza del credente
è vita di amore come dono di sé all’altro. Donandosi totalmente
agli uomini, Dio chiede loro la risposta di un dono altrettanto
totale: cf. il “comandamento della carità” riportato da tutti
i Vangeli sinottici (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).
Gesù ritiene fatto a sé ogni gesto di misericordia nei confronti
di “uno solo di questi miei fratelli più piccoli” (Mt 25,40).
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri;
come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri”: Gv 13,34-35. “Se Dio ci ha amato,
anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha
visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi
e l'amore di lui è perfetto in noi”: 1Gv 4,11-12.
Nella carità di Cristo la sessualità ritrova la vocazione
originaria ad essere segno e strumento di comunione.
Se Gesù vive senza sposarsi, votandosi interamente alla missione
assegnatagli da Dio, e vede anche per i suoi discepoli questa
forma di vita come una possibilità, una vocazione di grazia
“per il regno dei cieli” (Mt 19,12), nondimeno egli ha un’altissima
considerazione ed un profondo rispetto per il matrimonio che
Dio stesso ha istituito “all’inizio della creazione” (Mc 10,6p.;
cf. Gen 2,24).
Solo su questo sfondo si può pienamente comprendere il richiamo
preciso di Gesù all’unità ed indissolubilità del Matrimonio:
“L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Mc 10,9).
Il messaggio è accolto da Paolo il quale, pur esaltando la
verginità, che “amplia” l’amore e dirige chiaramente all’eschaton,
riafferma la dignità del matrimonio, ribadendo la fedeltà
e l’indissolubilità che deve caratterizzarlo (cf. 1Cor 7).
I credenti si sposano “nel Signore” (1Cor 7,39).
In Ef 5,21-33 abbiamo un approfondimento teologico. Il brano
è dominato dall’immagine della “sola carne” di Gen 2,24, accostando
le due coppie Cristo-Chiesa e uomo-donna. L’Apostolo “discende”
dall’amore di Cristo per la Chiesa all’amore dell’uomo per
la donna.
Il discorso si svolge tutto sotto il segno dell’amore: il
rapporto marito-moglie viene modulato su quello Cristo-Chiesa,
che è rapporto di amore. Il riferimento al legame Cristo-Chiesa
non significa per gli sposi guardare semplicemente ad un modello:
Cristo, in effetti, afferra e purifica tale realtà.
Il matrimonio cristiano si immerge nel mistero stesso di Dio,
che è il suo progetto salvifico (cf. Ef 5,32: “Questo mistero
è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”);
si apre ad orizzonti più ampi nella dimensione della ecclesialità,
servendo all’edificazione ed alla crescita della Chiesa.
L’amore coniugale è visto nella prospettiva dell’amore-agápe
rivelato in Cristo, senso nuovo e norma di vita del cristiano,
e quindi della sua vita coniugale e familiare. L’agápe assume
in sé e nobilita tutto il linguaggio della tenerezza coniugale.
In esso si riassumono tutti gli imperativi morali riguardanti
la vita della coppia e della famiglia.
L’amore-agápe non è solo sponsale, ma anche paterno, materno,
fraterno... Così, nel cap. successivo della lettera (Ef 6,1-9)
Paolo considera tutti i membri componenti la famiglia.
Eppure anche la famiglia, come il matrimonio, non è un assoluto.
Si profilano nuovi legami con Dio. Anche all’interno dei vincoli
familiari i rapporti sono nuovi. Globalmente si vede una famiglia
in tensione a causa del Vangelo:
Mc 3,31-35: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando
fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la
folla e gli dissero: ‘Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le
tue sorelle sono fuori e ti cercano’.
Ma egli rispose loro: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’.
Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno,
disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà
di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre’”.
Nel Vangelo emerge uno spirito di libertà nei confronti dei
legami di sangue ed un certo senso di relatività delle strutture
familiari, per il dono di un legame “parentale” con Cristo,
non secondo la carne, ma secondo la fede, che viene ad essere
prioritario.
Del resto, il Vangelo si apre con la descrizione del formarsi
di una famiglia “unica”, in cui si uniscono matrimonio e verginità
e in cui Dio viene ad abitare. La S. Famiglia ha valore esemplare:
“Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita
di Gesù, cioè la scuola del Vangelo... Essa ci insegna il
modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia,
cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice,
il suo carattere sacro e inviolabile...”: PAOLO VI, Discorso
5/1/1964 a Nazaret; cf. Liturgia delle Ore, Ufficio delle
Letture nelal festa della Santa Famiglia.
2. Vocazione all’amore: matrimonio
e famiglia. Fedeltà e apertura alla vita
2.1. Concezione cristiana
della sessualità
Talora l’etica sessuale viene colta come proposta-imposizione
di tutta una serie di proibizioni. Occorre invece riconoscere
come dal punto di vista cristiano - ma anche in una sana filosofia
morale - i divieti non sono mai la cosa più importante, ma
costituiscono soltanto l’aspetto negativo di un assenso ai
veri valori della vita. Questo pur riconoscendo senza timori
il valore imprescindibile del comandamento.
La sessualità è presente ed influenza i diversi aspetti della
vita umana: essa è un modo di essere al mondo come maschio-femmina
che riguarda tutto l’essere umano, nelle sue diverse manifestazioni
e dimensioni.
Essa però non può essere ridotta a pura genitalità, a sesso.
Si può a motivo distinguere una sessualità generica (che si
manifesta nelle diverse espressioni che denominiamo “maschili”
o “femminili”) da una sessualità genitale (che coinvolge direttamente
gli organi sessuali ed il loro “uso”).
La sessualità è strettamente legata all’identità personale:
riguarda l’essere prima che l’agire. Anche a livello magisteriale
si riconosce:
“La persona umana, a giudizio degli scienziati del nostro
tempo, è così profondamente influenzata dalla sessualità,
che questa deve essere considerata come uno dei fattori che
danno alla vita di ciascuno i tratti principali che la distinguono.
Dal sesso, infatti, la persona umana deriva le caratteristiche
che sul piano biologico, psicologico e spirituale la fanno
uomo o donna, condizionando così grandemente l’iter del suo
sviluppo verso la maturità e il suo inserimento nella società”
(PH 1: EV 5/1717; EF 1507).
Nonostante il carattere ambivalente di alcune sue espressioni
(egoismo, sfruttamento...), la sessualità umana nelle sue
manifestazioni autentiche rivela che la persona è un “essere
per l’altro”, un essere che non basta a se stesso, ma ha bisogno
dell’“altro”. Un “altro” che può essere considerato una “porta”,
dietro la quale se ne possono aprire molte altre, sino a quella
che immette sull’“Altro” che è Dio (cf. la riflessione sul
“volto” di E. Lévinas).
In una corretta visione dell’etica cristiana riguardante la
sessualità, che - naturalmente - si colloca e si comprende
solamente all’interno del quadro dell’amore di Dio e del prossimo,
si pongono alcune affermazioni (cf. Congr. per l’ed. catt.,
Orientamenti educativi sull’amore umano [1/11/1983], 22-31:
EV 9/440-449):
- Innanzitutto si riconosce al corpo un significato di natura
antropologica: il corpo rivela l’uomo, esprime la persona,
consente di percepire il senso della sua vita e della sua
vocazione.
- Il corpo presenta anche un significato di natura teologale:
esso rivela all’uomo Dio ed il suo amore creatore, manifestandogli
la sua creaturalità, la sua dipendenza da un dono d’amore.
- In quanto sessuato, il corpo esprime pure la vocazione dell’uomo
alla reciprocità, cioè all’amore ed al dono di sé: uomo e
donna sono due modi di partecipazione alla vita stessa di
Dio.
- La presenza del peccato rende meno facile la percezione
di questi messaggi.
- Il mistero dell’uomo trova vera luce soltanto nel mistero
del Verbo incarnato (cf. GS 22; EV 1/1475). La sessualità
appare così vocazione a realizzare l’amore che lo Spirito
infonde nei credenti.
- Gesù ha indicato pure la vocazione alla verginità per il
Regno dei Cieli. La “fondamentale e nativa vocazione di ogni
essere umano” è l’amore (FC 11: EV7/1557; EF 507). E all’amore
l’uomo è chiamato nella sua “totalità unificata” di spirito
incarnato (cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato
da uno spirito immortale). La rivelazione cristiana conosce
due modi specifici di realizzare la vocazione all’amore della
persona umana, nella sua interezza: il matrimonio e la verginità
(cf. FC 11: EV 7/1558-1559; EF 508-509).
La vita affettiva, propria di ciascun sesso, si esprime dunque
in modo caratteristico nei diversi stati di vita: l’unione
dei coniugi, il celibato consacrato scelto per il Regno, la
condizione del cristiano che non ha raggiunto il momento dell’impegno
matrimoniale o perché rimane tuttora celibe, o perché ha scelto
di conservarsi tale. La sessualità diventa personale e veramente
umana allorché è integrata nella relazione da persona a persona
(cf. Orientamenti educativi sull’amore umano 32-33: EV 9/450-451).
2.2. Traguardo e mezzi
Il cammino ed il traguardo del cristiano in questo campo di
crescita è contraddistinto dalla virtù della castità, intesa
come l’impegno di integrare e canalizzare l’istinto sessuale.
La castità esprime la positiva integrazione della sessualità
nella persona e conseguentemente l’unità interiore dell’essere
umano nel suo essere corporeo e spirituale.
Il tenore del discorso è, dunque, innanzitutto positivo. Paolo
lo ha così riassunto: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1Cor
6,20). La castità non è perciò una virtù meschina, ma consiste,
attraverso il rispetto della grandezza del corpo, nel rendere
gloria a Dio che ne è il Creatore e che, dal momento dell’Incarnazione,
ha assunto in Gesù un corpo di carne.
La castità domanda l’acquisizione del dominio di sé, che è
pedagogia per la libertà umana. Si tratta di un’opera di lungo
respiro, da non ritenere acquisito una volta per tutte; che
conosce leggi di crescita, che implica uno sforzo culturale,
che domanda l’uso di mezzi appropriati, quali: la conoscenza
di sé, la pratica di un’ascesi adatta alle situazioni in cui
viene a trovarsi, l’obbedienza ai comandamenti, l’esercizio
delle virtù morali, la fedeltà alla preghiera.
Grazie ad essa, la persona “unifica” le proprie energie, esercitando
una giusta “signorìa” su di sé. Agostino afferma che “la continenza
in verità ci raccoglie e ci riconduce a quell’unità, che abbiamo
perduto disperdendoci nel molteplice” (Conf. 10,29,40, cit.
in C 2340).
E la padronanza di sé è ordinata al dono di sé. Sotto l’influsso
della carità, “forma” di tutte le virtù, la castità si sviluppa
come una scuola del dono della persona, nelle due diverse
modalità del matrimonio e della verginità. Entrambe, se vissute
fedelmente, esprimono l’ordo amoris, attuando scelte “ordinate”
alla gerarchia dei valori (quindi buone, giuste), ed evitando
appunto quelle “disordinate” (cattive, disoneste).
Il disegno di Dio è che noi, anche attraverso l’uso della
nostra sessualità, diventiamo santi:
“Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che
vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere
il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto
di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio...
Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione”
(1Ts 4,3-7).
Consideriamo ora in modo particolare il matrimonio.
2.3. Matrimonio: lo sviluppo
nella storia
Lo sfondo umano assume un valore tutto particolare, poiché
è lo spessore umano delle persone nel loro reciproco darsi
ed accogliersi a diventare segno sacramentale della Grazia.
Il momento sacramentale non è separato da quello antropologico:
il segno sacramentale coincide con la comunione vitale tra
l’uomo e la donna, i quali ne sono ministri e destinatari
nella fede. Ognuno diventa “grazia” per l’altro.
Come abbiamo visto, la Scrittura stessa presenta sin dalle
prime pagine come il rapporto uomo-donna nel progetto di Dio
conduce alla fondazione di una famiglia, caratterizzata da
unicità e indissolubilità (“una sola carne”: Gen 2,24), ma
anche dalla fecondità (“Siate fecondi e moltiplicatevi”: Gen
1,28). Il peccato infrange questo equilibrio, ma Dio continuamente
riprende il dialogo con le sue creature.
Gesù giunge ad abolire la stessa norma biblica sul ripudio
(cf. Dt 24,1), richiamando al disegno della creazione, al
volere di Dio (cf. Gen 2,24): “L’uomo dunque non separi ciò
che Dio ha congiunto” (Mc 10,9). Si tratta di un’esigenza
assoluta, che si può comprendere in definitiva solo a partire
dalla signoria di Dio annunciata da Gesù. Questa comporta
un nuovo ordinamento e richiede una nuova condotta, contraria
alla precedente (cf. i comportamenti in relazione alla violenza
e al potere).
Chi segue la chiamata di Dio è responsabile davanti a Dio
stesso per la creatura che ha con lui il vincolo più stretto,
cioè quello matrimoniale: dapprima i mariti, ritenuti allora
i responsabili; più tardi, già nella Chiesa primitiva, anche
le mogli (cf. Mc 10,12). In luogo del diritto matrimoniale
vigente, subentra un comandamento più alto: la responsabilità
reciproca, in definitiva l’amore, che lega i coniugi l’uno
all’altro.
La vicenda storica della teologia del matrimonio ci mostra
l’impegno della comunità ecclesiale nel “rileggere” cristianamente
l’amore coniugale, ma anche le preoccupazioni giuridiche e
pastorali, che conducono a chiarificare la natura e gli impegni
del vincolo sponsale.
Così s. Agostino riconosce come valori intrinseci al matrimonio
i tre “beni”: bonum prolis, fidei, sacramenti (cf. De bono
coniugali, ripresi in Casti connubii 11). S. Tommaso considera
il matrimonio nei suoi diversi aspetti come istituzione naturale,
sacramento, istituto civile; ne individua l’essenza nella
nuova relatio fra i due contraenti; ritiene la famiglia la
prima forma di comunità (cf. CG 3,122-126; 4,78; Suppl. qq.
41-68). Più vicino a noi va ricordato l’apporto del personalismo
cristiano, che viene a focalizzare la ricchezza del rapporto
interpersonale degli sposi.
Negli ultimi decenni anche la riflessione magisteriale si
è particolarmente approfondita. L’apporto del Vaticano II
(cf, fra gli altri testi, LG 11. 35. 41: EV 1/314. 376. 394;
AA 11: EV 1/952-957; GS 47-52: EV 1/1468-1491) è stato sviluppato
dal ricco magistero di Paolo VI (cf. Humanae vitae, 25/7/1968)
e di Giovanni Paolo II (cf. almeno Familiaris consortio, 22/11/1981;
Catechesi sull’amore umano, 1979-1984; Lettera alle famiglie,
2/2/1994).
Anche l’azione pastorale a favore della famiglia, non priva
di una certa azione conservatrice di un ordine di cui la famiglia
appare come il grande e naturale baluardo, sfocia infine nella
fioritura di una spiritualità coniugale e familiare, che cerca
di promuovere la santificazione degli sposi proprio attraverso
la vita matrimoniale ordinaria (cf, ad es., le iniziative
della Comunità di Caresto).
Per la Chiesa italiana significativi sono i diversi contributi
della CEI, confluiti e sistematizzati nel Direttorio di pastorale
familiare per la Chiesa in Italia nel 1993.
L’impegno nei diversi campi ha portato ad un approfondimento
della lettura teologica del matrimonio, che progressivamente
ha evidenziato la necessità di partire dal sacramento, ma
anche dal valore dell’amore, focalizzando la correlazione
esistente tra famiglia, Chiesa, mondo e Regno.
2.4. Matrimonio: incontro
con Dio
La teologia del matrimonio può essere oggi presentata partendo
dal principio che tutta la vita cristiana è sviluppo di ciò
che è contenuto germinalmente nel Battesimo, espressione di
ciò che è offerto come possibilità di grazia e di salvezza
negli altri sacramenti, tensione verso la pienezza dell’incontro
con Cristo, realizzato prefigurativamente nell’Eucaristia.
Oltre la prospettiva giuridica del “contratto”, si tratta
di vedere il matrimonio nell’ottica del patto di alleanza
fra Dio ed Israele, fra Cristo e la sua Chiesa.
Il Concilio, evocando una messe di testi biblici, punta chiaramente
sulla realtà di Dio che viene incontro all’uomo e alla donna
e resta con loro: “Cristo Signore ha effuso l’abbondanza delle
sue benedizioni su questo amore multiforme, sgorgato dalla
fonte della divina carità e strutturato sul modello della
sua unione con la Chiesa. Infatti, come un tempo Dio venne
incontro al suo popolo con un patto di amore e fedeltà [cf.
Os 2; Ger 3,6-13; Ez 16. 23; Is 54], così ora il Salvatore
degli uomini e sposo della Chiesa [cf. Mt 9,15; Mc 2,19-20;
Lc 5,34-35; Gv 3,39; 2Cor 11,2; Ef 5,27; Ap 19,7-8; 21,2.9]
viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento
del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come Egli
stesso ha amato la Chiesa e si è dato per lei [cf. Ef 5,25],
così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente,
per sempre, con mutua dedizione” (GS 48: EV 1/1472; EF 12).
Il matrimonio va dunque letto come aspetto del “grande mistero”
di Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5,32). In questa luce il
Concilio rileva come “l’autentico amore coniugale è assunto
nell’amore divino”, di modo che i coniugi sono “corroborati
e come consacrati” dal sacramento nuziale, e vivendone le
esigenze, sono incamminati sulla via della santità (cf. ib.).
Nel sacramento Cristo dona dunque agli sposi un nuovo modo
di essere per il quale sono come configurati a lui, sposo
della Chiesa e posti in un particolare stato di vita entro
il popolo di Dio. Tutta la loro esistenza viene ad essere
improntata dalla “quasi-consacrazione” che essi ricevono nel
sacramento di cui, almeno secondo la teologia occidentale,
sono ritenuti ministri (cf. C 1623).
L’esortazione liturgica prima dello scambio del consenso ricorda
significativamente agli sposi che essi sono venuti insieme
nella casa del Padre, perché il loro amore riceva “il suo
sigillo e la sua consacrazione davanti al ministro della Chiesa
e davanti alla comunità”. Precisa però che sono già consacrati
nel Battesimo: il nuovo sacramento è donato perché si amino
fedelmente ed assumano responsabilmente i doveri del matrimonio,
ovvero vivano il loro amore in conformità alla morale cristiana.
2.5. Matrimonio: sacramento
da vivere
Parlare di morale, lo sappiamo, è in certo senso parlare di
dovere, di norme obbliganti, ma la morale cristiana, prima
che sul dovere, è fondata sulla grazia. Infatti, prima di
darci i suoi comandi, la Parola di Dio opera in noi quell’azione
di salvezza da cui il comando scaturisce poi come logica interna
del dono, e da cui viene la capacità radicale di farvi fronte.
Anche la morale matrimoniale deve accogliere l’invito del
Concilio ad impegnarsi per illustrare e “l’altezza della vocazione
dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto
nella carità per la vita del mondo” (OT 16: EV 1/808; cf.
VS 7. 29: EV 13/2548. 2610).
Assumendo come punto di partenza lo specifico cristiano, il
discorso morale non trascura tuttavia, ma si propone di valorizzare
tutto l’umano. Questo vale in particolare per la morale coniugale:
lo specificamente cristiano è lo stesso sacramento del matrimonio
che assume l’autentico amore umano e con il suo “carattere”
consacratorio e dunque, in certo modo, permanente, ne costituisce
il principio vitale e l’esemplare. Al sacramento del matrimonio
deve essere dunque ricondotta, come a suo fondamento ed a
suo costante sostegno, la vita morale della coppia cristiana
nei suoi molteplici valori ed impegni, anche quelli radicati
nella stessa natura dell’uomo.
Il sacramento del matrimonio diventa dunque la legge nuova
della coppia cristiana. Infatti, mentre testimonia l’amore
gratuito di Dio, la grazia sollecita negli sposi la loro libera
risposta di credenti mediante un’esistenza conforme al dono
ricevuto. La morale coniugale cristiana non rimane così una
imposizione esteriore, ma diventa un’esigenza della vita di
grazia, un frutto dello Spirito che agisce nel cuore degli
sposi e li guida alla libertà dei figli di Dio.
Come tutti gli altri sacramenti, il matrimonio non solo presuppone
la fede, ma anche la esprime e la rafforza. Più la fede dei
coniugi sarà attiva, maggiore sarà la partecipazione del dono
che ricevono ed il sostegno per affrontare gli impegni che
il dono comporta.
Nella fede si coglie come il primo dono-impegno del matrimonio
cristiano è l’amore coniugale, che si iscrive nel più generale
ambito dell’amore con cui Dio ama l’uomo e con cui l’uomo
risponde a tale amore gratuito. Gli sposi cristiani sono così
aiutati dalla grazia sacramentale a vivere, purificandole,
le dimensioni tipiche dell’amore coniugale che, come ricorda
Paolo VI, è umano, totale, fedele, fecondo (cf. HV 9: EV 3/595;
EF 51-55).
Si tratterà di un amore capace di fondere in armoniosa sintesi
i valori dello spirito, dell’affettività e della corporeità,
sino a realizzare una profonda unità personale che, al di
là dell’“una sola carne” conduce a “un cuore solo e un’anima
sola” (cf. FC 13: EV 7/1570; EF 520).
In questo orizzonte trova tutto il suo significato la sessualità,
mediante la quale uomo e donna si donano l’uno all’altra con
gli atti propri ed esclusivi degli sposi. Essa “non è affatto
qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l’intimo nucleo
della persona umana come tale” e “si realizza in modo veramente
umano solo se è parte integrale dell’amore con cui l’uomo
e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altro fino
alla morte” (FC 11: EV 7/1560; EF 510).
Per il credente infatti l’amore, oltre che dono, è impegno
affidato a quella libertà spirituale che, entro certi limiti,
può dominare i sentimenti spontanei, o almeno a questo è chiamata,
in quanto un impegno è una responsabilità per sempre.
2.6. Fedeltà e indissolubilità
Quello degli sposi è un amore fedele ed indissolubile, dono
dell’amore fedele di Dio rivelato in Cristo, che richiama
al progetto primordiale della creazione. L’indissolubilità
del vincolo coniugale è la proiezione della fedeltà nella
sua dimensione etica e religiosa, che assume tuttavia una
valenza primariamente teologica e morale, più che giuridica
e sociologica.
Si tratta infatti di un “vincolo sacro in vista del bene sia
dei coniugi e della prole che della società”, che “non dipende
dall’arbitrio dell’uomo” (GS 48: EV 1/1471; EF 11). La Chiesa
sente come suo dovere ribadire “il lieto annuncio della definitività
di quell’amore coniugale, che ha in Gesù Cristo il suo fondamento
e la sua forza [cf. Ef 5,25]” (FC 20: EV 7/1586; EF 536).
Chiaramente si tratta di un dono da coltivare con una crescita
continua dei coniugi e da custodire con coscienza vigile e
formata, attenta al pericolo di logoramento che potrebbe introdursi
nella comunità coniugale. Il coltivare l’unione di coppia,
escludendo altre possibilità, consente di affrontare l’immancabile
disillusione e di integrare positivamente l’elemento inevitabile
di rinuncia: un “sì” è sempre accompagnato da dei “no”.
La stessa possibilità di una crisi o del fallimento, seppur
sconvolgente, richiede una risposta attiva ed impegnativa,
cercando motivazioni per creare una condizione di vita che
sia accettabile. Le forze morali possono crescere sotto la
spinta della responsabilità assunta per amore. Si tratta di
rendere positiva, od almeno accettabile, la propria scelta
coniugale, anche se si riconoscono errori e difficoltà di
comunione. Occorre interrogarsi anche sulla responsabilità
verso tutti coloro che sono coinvolti: l’altro coniuge, i
figli...
Anche di fronte a fallimenti a prima vista irrimediabili,
resta ferma la fedeltà di quell’Amore, da cui l’amore coniugale
è sgorgato, ed alla cui sorgente è sempre possibile attingere
le energie per una rinascita ed un rinnovamento, anche radicali,
dell’amore.
Se il coniuge cristiano non può mai sentirsi sciolto dal vincolo
coniugale, è appunto perché egli non può mai essere sciolto
dall’impegno di amare, ricominciando magari da capo, perdonando,
con disinteresse, senza attendere ricompensa.
Molti problemi della coppia nascono in realtà dal fatto che
nessuno dei due coniugi è veramente disposto ad abbandonarsi
all’amore ed alla sua logica esigente, ma trasformante; amore
che spesso potrebbe avere un certo effetto di ripensamento
e di stimolo nell’altro coniuge.
Certamente un amore di questo genere può essere capito pienamente
soltanto alla luce della Croce, del Cristo sposo “che ha amato
la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Ma si tratta
di una croce illuminata dalla speranza della risurrezione,
anche se pienamente si manifesterà solo al di là di questa
vita e dei suoi inevitabili fallimenti e sofferenze.
La famiglia richiede l’impegno ed il sacrificio di tutti,
che si manifestano in modo speciale nel perdono, sostenuto
e reso possibile dai Sacramenti:
“Ogni famiglia è sempre chiamata dal Dio della pace a fare
l’esperienza gioiosa e rinnovatrice della ‘riconciliazione’,
cioè della comunione ricostruita, dell’unità ritrovata. In
particolare la partecipazione al sacramento della riconciliazione
e al banchetto dell’unico corpo di Cristo offre alla famiglia
cristiana la grazia e la responsabilità di superare ogni divisione
e di camminare verso la piena verità della comunione” (FC
21: EV 7/1593; EF 543).
2.7. Apertura alla vita
L’amore coniugale è chiamato anche ad essere fecondo. Amore
e fecondità-procreazione sono realtà appartenenti ad un’unità
vitale: “Per sua indole naturale, l’istituto stesso del matrimonio
e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla
educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento”
(GS 48: EV 1/1471; EF 11), essendo i figli “il preziosissimo
dono del matrimonio” e contribuendo essi in modo rilevante
al bene degli stessi genitori (cf. GS 50: EV 1/1478; EF 18).
La trasmissione della vita umana e l’educazione conseguente
sono doveri che i coniugi devono adempiere “con umana e cristiana
responsabilità”. Al riguardo gli sposi sono tenuti a formarsi,
davanti a Dio, un retto giudizio, che tenga conto dei diversi
beni coinvolti, nella consapevolezza però che essi “non possono
procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da
una coscienza che si deve conformare alla legge divina stessa,
docili al Magistero della Chiesa, che in modo autentico quella
legge interpreta alla luce del Vangelo” (GS 50: EV 1/1479;
EF 19).
Paolo VI nell’Humanae vitae espone e motiva i criteri che
guidano la giusta regolazione della natalità. Alla luce di
“una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non
solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna”
(HV 7: EV 3/593; EF 47), in cui si colloca un’esatta concezione
dell’amore coniugale (pienamente umano, totale, fedele e fecondo:
cf. HV 9: EV 3/595; EF 51-55), la procreazione responsabile
deve rispettare la “connessione inscindibile, che Dio ha voluto
e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due
significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e
il significato procreativo” (HV 12: EV 3/598; EF 63). Rompere
questo nesso “è contraddire alla natura dell’uomo come a quella
della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire
anche al piano di Dio e alla sua santa volontà” (HV 13: EV
3/599; EF 65).
Per la regolazione delle nascite non è dunque lecito né interrompere
il processo generativo già iniziato con l’aborto (perché di
tratta di uccisione di una vita umana); né ricorrere alla
sterilizzazione, né compiere qualsiasi azione che, “o in previsione
dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo
delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o
come mezzo, di impedire la procreazione” (HV 14: EV 3/600;
EF 68). Con quest’ultima espressione il Papa condanna i mezzi
artificiali di regolazione delle nascite (interruzione dell’atto,
mezzi meccanici e chimici, come le varie pillole).
Non contraddice invece ai principi sopra affermati il ricorso,
per seri motivi, ai periodi infecondi per il controllo delle
nascite. La differenza tra le due fattispecie non è infatti
legata solo all’intenzione, ma anche al fatto che in questo
caso i coniugi usufruiscono in modo legittimo di una disposizione
naturale; con la contraccezione, invece, impediscono lo svolgimento
dei processi naturali (cf. HV 16: EV 3/602; EF 73).
Giovanni Paolo II ha approfondito il discorso, spiegando come
la contraccezione non rispetta il valore teologico ed antropologico
della capacità procreativa dei coniugi.
Il valore teologico è legato all’imprescindibile riferimento
a Dio Creatore della capacità di generare: “Quando i coniugi,
mediante il ricorso alla contraccezione, scindono questi due
significati che Dio creatore ha inscritti nell’essere dell’uomo
e della donna e nel dinamismo della loro comunione sessuale,
si comportano come ‘arbitri’ del disegno divino” (FC 32e:
EV 7/1622; EF 572).
Il valore antropologico della sessualità consiste nell’esprimere
la reciproca donazione totale dei coniugi. A questo “linguaggio
nativo”, la contraccezione sostituisce “un linguaggio oggettivamente
contraddittorio, quello cioè del non donarsi all’altro in
totalità: ne deriva, non soltanto il positivo rifiuto all’apertura
alla vita, ma anche una falsificazione dell’interiore verità
dell’amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale”
(FC 32e: EV 7/1622; EF 572).
Il Papa affida alla riflessione teologica il compito di cogliere
ed approfondire la differenza antropologica e al tempo stesso
morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi
temporali. Alla luce della stessa esperienza di tante coppie
di sposi e dei dati delle scienze umane, si può comprendere
come si tratta di una differenza assai più vasta e profonda
di quanto abitualmente non si pensi e che coinvolge in ultima
analisi due concezioni della persona e della sessualità umana
tra loro irriducibili. Infatti
“la scelta dei ritmi naturali comporta l’accettazione del
tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l’accettazione
anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità,
del dominio di sé. Accogliere poi il tempo e il dialogo significa
riconoscere il carattere insieme spirituale e corporeo della
comunione coniugale, come pure vivere l’amore personale nella
sua esigenza di fedeltà. In questo contesto la coppia fa l’esperienza
che la comunione coniugale viene arricchita di quei valori
di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l’anima
profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione
fisica. In tal modo la sessualità viene rispettata e promossa
nella sua dimensione veramente e pienamente umana” (FC 32d:
EV 7/1624; EF 574).
Giovanni Paolo II si è pure impegnato a svolgere un’organica
trattazione nelle Catechesi tenute nelle udienze generali
(1979-1984) che, a suo avviso, “in un certo senso... sembrano
costituire un ampio commento alla dottrina contenuta appunto
nell’enciclica Humanae vitae” (Uomo e donna lo creò…, 495).
2.8. Difficoltà e gradualità
Nei confronti dell’insegnamento magisteriale vengono proposte
con frequenza difficoltà, sia in relazione ad una supposta
visione “biologistica” degli atti coniugali, come ad una presunta
impossibilità di utilizzo o di efficacia dei metodi naturali
stessi.
Non possiamo diffonderci nelle risposte. Possiamo però ricordare
che la contraccezione non è moralmente negativa solo perché
“artificiale”, ma perché non rispetta la dignità delle persone
e non è segno di un amore totale. Essa può rappresentare anche
un attentato alla vita umana, laddove sono utilizzati mezzi
abortivi (spirale ed alcuni tipi di “pillola”) o nel caso
in cui, in presenza di un eventuale “fallimento” della tecnica,
si ricorra all’aborto.
Del resto, per inciso, va ricordato che anche i “metodi naturali”
possono essere “usati” egoisticamente, se la coppia si chiude
colpevolmente nei confronti della vita.
Quanto all’“efficacia”, premesso che non può essere questo
il criterio per stabilire la liceità di un metodo, studi recenti
mostrano che, con una corretta applicazione, si possono ottenere
risultati paragonabili a quelli raggiunti dai mezzi artificiali
(cf., ad es., J. Roetzer, La regolazione naturale della fertilità.
Il metodo sintotermico di Roetzer, Cortina, Verona 19952,
91-93).
Indubbiamente è necessaria alla coppia una forte motivazione,
in grado di sostenere la fatica dell’apprendimento e dell’utilizzo
del metodo, che richiede tempo, continuità e capacità di controllo.
Del resto, numerosi sono i vantaggi riscontrati da coloro
che utilizzano i metodi naturali (cf. M 299, n. 77). Ricordiamo
come siano stati appresi anche da parte di utenti in condizioni
assai svantaggiate (ad es., in zone povere dell’India) e come
l’astensione dai rapporti richiesta dai metodi possa favorire,
non un allontanamento, ma una maggiore comunicazione fra i
coniugi.
Non bisogna poi mai dimenticare che la morale presenta sempre
una dimensione pedagogica. Anche le norme morali riguardanti
la procreazione responsabile possono essere realizzate con
l’aiuto ineliminabile della grazia, con l’impegno - a volte
prolungato - e con passi successivi.
In questo contesto si colloca la “legge della gradualità”.
Giovanni Paolo II riconosce che:
“l’uomo chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente
e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno
per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo
egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di
crescita” (FC 34; EV 7/1631; EF 581).
Anche gli sposi, nella loro vita morale, sono chiamati ad
un continuo cammino, sostenuti dal desiderio di conoscere
sempre meglio i valori proposti dalla legge divina, e dalla
volontà di incarnarli nelle loro scelte concrete. Le eventuali
difficoltà coniugali non devono però essere risolte a danno
della verità. Perciò, gli sposi, nota il Papa, “non possono
guardare alla legge solo come ad un puro ideale da raggiungere
in futuro, ma debbono considerarla come un comando di Cristo
Signore a superare con impegno le difficoltà” (FC 34: EV7/1632;
EF 582).
La cosiddetta “legge della gradualità”, o cammino graduale,
non può dunque identificarsi con la “gradualità della legge”,
come se esistessero diversi gradi e forme di precetto nella
legge di Dio per diverse persone e situazioni. In quest’ottica
“rientra nella pedagogia della Chiesa che i coniugi anzitutto
riconoscano chiaramente la dottrina dell’Humanae vitae come
normativa per l’esercizio della loro sessualità, e sinceramente
si impegnino a porre le condizioni necessarie per osservare
questa norma” (FC 34: EV7/1632; EF 582).
Il Papa, dunque, richiama al fatto che l’“ideale” non resti
vago, indeterminato, ma veramente vincolante, come lo è l’esigenza
di accordare la propria vita ad un vero ordine morale oggettivo.
Quest’ultimo vale per tutti e sempre; l’itinerario personale
del soggetto dev’essere perciò contraddistinto dalla serietà
di un impegno di attuazione della norma, sia pure faticosa
e graduale.
Ma la gradualità della crescita ed il rispetto dei suoi ritmi
riguardano non soltanto l’attuazione, ma, ancora più a monte,
la comprensione ed accettazione delle norme.
È il problema più generale di una corretta pedagogia delle
coscienze, che educhi senza fare violenza, anzi favorendo
lo sviluppo interno del senso morale e facendo appello alle
stesse energie di bene del soggetto ed al suo amore per la
verità.
Gli sposi non devono scoraggiarsi per le possibili cadute.
Di grande valore al riguardo risulta il Discorso alle Équipes
Notre-Dame sulla famiglia scuola di santità, di Paolo VI (4/5/1970),
specialmente per quanto riguarda la vocazione alla santità
rivolta alla famiglia e la considerazione della graduale maturazione
della castità coniugale:
“Chi non lo sa? Soltanto a poco a poco l’essere umano giunge
a gerarchizzare e ad integrare le sue tendenze molteplici,
fino ad ordinarle armoniosamente in quella virtù di castità
coniugale in cui la coppia trova il suo pieno compimento umano
e cristiano.
Quest’opera di liberazione… è il frutto della vera libertà
dei figli di Dio, la cui coscienza chiede al tempo stesso
di essere rispettata, educata e formata in un clima di fiducia
e non di angoscia, in cui le leggi morali, lungi dall’avere
la freddezza inumana..., hanno la funzione di guidare la coppia
nel suo cammino... senza lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi…
Il cammino degli sposi, come ogni vita umana conosce molte
tappe, e le fasi difficili e dolorose... vi hanno anche il
loro posto. Ma bisogna dirlo ad alta voce: mai l’angoscia
o la paura dovrebbero trovarsi in anime di buona volontà,
perché, infine, il Vangelo non è forse una buona novella anche
per i coniugi, ed un messaggio che, se pure è esigente, non
è meno profondamente liberatore?...
Scoprirsi quasi incapaci di rispettare, sul momento, la legge
morale... suscita naturalmente una reazione di sconforto.
Ma è il momento decisivo in cui il cristiano... accede, nell’umiltà,
alla scoperta sconvolgente... di un peccatore davanti all’amore
del Cristo Salvatore” (nn. 14-15; in P. Barberi - D. Tettamanzi
[edd.], Matrimonio e famiglia nel Magistero della Chiesa…,
Massimo, Milano 1986, 425-442; qui 438-439; sottolineature
mie).
2.9. Responsabilità educative
nella famiglia: compiti ecclesiali e sociali
a. Il dono-dovere della missione educativa - La “generazione
fisica” del figlio trova il suo completamento naturale nell’educazione.
L’efficacia dell’influsso educativo dei genitori sui figli
è tanto profondo da poter dire che con l’educazione i genitori
li generano una seconda volta: li generano a ciò che è propriamente
più umano: la vita dello spirito ed il mondo della cultura.
Questo influsso è un caso privilegiato del più universale
mistero di solidarietà che lega l’uomo agli altri.
Oggi si parla di una certa perdita di rilevanza della famiglia
riguardo alla sua funzione educativa. E certamente essa è,
oggi più che in passato, affiancata da altre agenzie educative.
Ma proprio le scienze dell’uomo ci assicurano che l’influsso
della famiglia è ancora e sempre decisivo (cf. certe qualità
di fondo della persona: ottimismo o rassegnazione, altruismo
od egoismo, serietà o disimpegno morale).
Quanto la famiglia sembra aver perso in estensione orizzontale
a favore di altre agenzie, può essere ricuperato in profondità,
attraverso una più consapevole preoccupazione di educare gli
atteggiamenti di fondo nei confronti della vita.
Indubbiamente i genitori formano questi atteggiamenti prima
di tutto con l’esempio, e particolarmente vivendo in maniera
autentica il loro amore.
b. Educazione della fede in
famiglia e vita nella Chiesa - I genitori vanno considerati
come “i primi e i principali educatori” dei figli (GE 3: EV
1/826; in FC 36: EV7/1638; EF 588). Questa missione coinvolge
innanzitutto l’educazione alla fede ed alla vita ecclesiale.
Infatti è soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita
della grazia-missione del Matrimonio-sacramento, che i figli
sin dalla prima infanzia possono imparare a percepire il senso
di Dio, a mettersi in rapporto con lui e ad amare il prossimo
secondo la fede che hanno ricevuto nel battesimo. Nella famiglia,
“Chiesa domestica” (LG 11: EV 1/314; cf. AA 11: EV 1/955;
in FC 21: EV 7/1590; EF 540), i figli vivono la prima esperienza
della società umana e della Chiesa (cf. GE 3: EV 1/826; in
FC 60: EV7/1710; EF 660).
Particolarmente nella preghiera comune la famiglia mostra
di esercitare il compito sacerdotale che le è affidato, vivendo
come comunità in dialogo con Dio, “chiamata a santificarsi
ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo” (FC 55:
EV 7/1696; EF 646).
La famiglia va evangelizzata, ma dev’essere anche evangelizzatrice.
Essa “deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso
e da cui il Vangelo si irradia. Dunque nell’intimo di una
famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti
evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto
comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro
lo stesso Vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia
diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente
nel quale è inserita” (EN 71: EV 5/1688-1689; in FC 52: EV
7/1688; EF 638).
Nell’ambito di questa missione evangelizzatrice si rivela
oggi in modo drammatico il fenomeno più generale della difficoltà
di comunicazione esistente tra genitori e figli; e qui vengono
a volte sperimentati l’inefficacia ed il fallimento degli
sforzi educativi anche meglio intenzionati ed illuminati.
I genitori non devono però rassegnarsi al “fallimento”, ma
perseverare nel loro compito, senza cedere alla tentazione
dei “frutti immediati” e dei “tempi brevi”.
La famiglia, parte viva della Chiesa, deve contribuire alla
edificazione del regno, proprio in quanto famiglia, con la
sua vita quotidiana, ma anche assumendosi le responsabilità
missionarie, tanto con coloro con cui viene a contatto in
forza del vicinato, quanto all’interno della comunità cristiana.
c. Responsabilità sociali -
Cellula primaria e fondamentale della società (cf. AA 11:
EV 1/955; in FC 42: EV 7/1662; EF 612), la famiglia è il luogo
in cui può essere meglio sperimentata e compresa la essenziale
socialità dell’uomo, “la prima scuola di virtù sociali” (GE
3: EV 1/826; in FC 36: EV7/1638; EF 588). Nella famiglia tutto
è comune, e non per imposizione di legge, ma per amore reciproco.
In famiglia ognuno è accettato non per quello che rende, ma
per quello che è: una persona umana (e questo costituisce
un modello anche per la Chiesa!).
Attraverso la sua stessa vita, che è essenzialmente un vivere
insieme, la famiglia educa al senso sociale con facilità e
spontaneità, facendo attenzione ad evitare il pericolo del
familismo (che è un egoismo di gruppo).
Le famiglie sono chiamate anche ad essere presenti coraggiosamente
nei diversi ambiti sociali: la scuola, la vita politica, gli
“enti locali”...
2.10. Cura pastorale delle
famiglie in situazione difficile o irregolare
1. Carità nella verità - La sollecitudine pastorale, che la
Chiesa esercita verso tutte le famiglie, deve farsi più viva
verso le persone in difficoltà col matrimonio indissolubile.
Superata una certa tendenza all’emarginazione, la Chiesa attualmente
si è resa più attenta e sollecita verso coloro che vivono
in situazioni difficili o irregolari (per una trattazione
completa cf. il VII cap. [nn. 189-234] del Direttorio di pastorale
familiare… della CEI del 1993).
L’atteggiamento della Chiesa italiana si ispira al criterio
basilare che guida continuamente la sua azione: si tratta
di fare propri i sentimenti di Gesù, buon Pastore, vivendo
la carità nella verità. Questo comporta il saper coniugare
l’accoglienza e la misericordia con la necessaria chiarezza
nei principi.
Come Cristo, la Chiesa si impegna nell’accoglienza e nella
misericordia, aiutando le persone a distinguere tra le varie
forme di irregolarità matrimoniale e tra i diversi elementi
che stanno alla loro origine. In questo modo è possibile giungere
ad una migliore valutazione morale della responsabilità delle
persone, individuare adeguati interventi (non escluso un prudente
aiuto per eventuali casi di nullità) e suggerire concreti
cammini di conversione.
Nello stesso tempo però la Chiesa ripropone con chiarezza
e fermezza i contenuti ed i principi intangibili del messaggio
cristiano.
I. Innanzitutto ribadisce la indissolubilità del matrimonio.
Come abbiamo già rilevato, non si tratta di un bene di cui
disporre a piacimento, ma di un dono e di una grazia che vanno
custoditi ed sviluppati. Non bisogna quindi stancarsi di insegnare
che una situazione matrimoniale che non rispetti o rinneghi
questo valore costituisce un grave disordine morale.
II. In secondo luogo va riaffermato che anche i cristiani
in situazione matrimoniale irregolare appartengono alla Chiesa
per il battesimo che hanno ricevuto e per la fede non completamente
rinnegata. Tuttavia non sono in “piena” comunione con essa
se la loro vita è in contraddizione con il Vangelo di Gesù,
che richiede dai cristiani un matrimonio “nel Signore”, indissolubile
e fedele.
III. In conseguenza di questa situazione, la Chiesa non può
ammettere alla riconciliazione sacramentale ed alla comunione
eucaristica quanti continuano a vivere in una condizione di
vita in contraddizione con la fede, anche se non si stanca
di annunciare il bisogno del pentimento e della conversione,
come premessa necessaria per ricevere i sacramenti.
2. Diverse situazioni - Quanto
affermato vale propriamente per i divorziati risposati, gli
sposati solo civilmente e i conviventi. Possono infatti presentarsi
diverse situazioni particolari.
a) Se la persona, per validi
motivi (quali gravi difficoltà che rendono praticamente impossibile
la convivenza coniugale), è solo separata, senza successivo
matrimonio, può accedere ai Sacramenti. Infatti “la separazione
degli sposi con la permanenza del vincolo matrimoniale può
essere legittima in certi casi contemplati dal Diritto canonico”
(C 2383).
Comunque, nella convinzione che il matrimonio comporta convivenza
duratura e che la separazione è l’estremo rimedio, la comunità
cristiana deve aiutare i coniugi ad evitare il ricorso alla
separazione, a coltivare l’esigenza del perdono e la disponibilità
ad un’eventuale ripresa della vita comune, ed in ogni caso
a vivere cristianamente la loro situazione, in fedeltà al
vincolo indissolubile, specialmente nei momenti di difficoltà
e di tentazione di passare al divorzio e matrimonio civile.
b) Simile a questo è il caso
dei divorziati non risposati. Distinguendo, per quanto possibile,
tra chi ha subìto il divorzio, o vi ha fatto ricorso essendovi
come costretto per gravi motivi (ad es., la cura dei figli
o la tutela del patrimonio) e chi l’ha causato con un comportamento
morale scorretto, la Chiesa ricorda che solo per gravissime
ragioni si può far ricorso ad esso. In ogni caso esso equivale
solamente ad una separazione.
Chi ne è moralmente responsabile, ma non si è risposato, per
l’ammissione ai sacramenti, deve pentirsi sinceramente e riparare
concretamente il male compiuto; considerarsi veramente legato
dal vincolo matrimoniale e vivere separato per motivi moralmente
validi.
Al coniuge “innocente” andranno assicurate stima e solidarietà,
anche concreta, specialmente in presenza di figli piccoli
o comunque minorenni.
c) Più dolorosa è la situazione
dei divorziati risposati, che hanno contratto una nuova unione,
ovviamente solo civile. Fra di essi si notano atteggiamenti
diversi: alcuni si distaccano totalmente dalla Chiesa; altri
non sono pienamente coscienti del fatto che la loro nuova
unione è contro il Vangelo; altri, pur sapendolo, continuano
a loro modo la vita cristiana, manifestando a volte il desiderio
di una maggior partecipazione alla vita della Chiesa. Come
comportarsi?
Pur astenendosi dal giudicare l’intimo delle coscienze, dove
solo Dio vede e giudica, per la Chiesa la loro situazione
è disordinata. Si tratta infatti di una scelta in contrasto
con il Vangelo, che richiede il matrimonio unico ed indissolubile.
La loro nuova “unione” non può rompere il vincolo coniugale
precedente, e si pone in aperta contraddizione con il comandamento
di Cristo.
Questo non esclude il dovere di un ponderato discernimento
nel valutare le situazioni e le singole persone; l’importanza
del dialogo che può illuminare circa la posizione della Chiesa;
l’invito ad ascoltare la Parola di Dio, a partecipare agli
incontri di catechesi, a perseverare nella preghiera; specialmente
a partecipare fedelmente alla Messa; a condurre una vita morale
ispirata alla carità; ad impegnarsi per l’educazione dei figli.
Nella fedeltà al Signore, la Chiesa non può però ammettere
alla riconciliazione sacramentale ed alla comunione eucaristica
i divorziati risposati. Infatti non può essere celebrato il
sacramento della Confessione se manca, per il perdurare di
un’unione che non è nel Signore, la volontà di conversione.
Questa richiede non soltanto il pentimento per i peccati,
ma anche il proposito di non commetterli più, secondo il chiaro
comando di Cristo: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11).
Ma un simile proposito è di fatto assente quando i divorziati
risposati continuano a rimanere in una condizione di vita
che è contraria alla volontà del Signore. Non è possibile
infatti, nello stesso tempo, scegliere l'amore per Dio e la
non obbedienza al suo comandamento.
Sostenendoli nel cammino di conversione ed incoraggiandoli
a partecipare ai momenti ecclesiali ricordati sopra, non si
possono però far accostare ai Sacramenti.
La partecipazione alla vita della Chiesa anche in altri campi
rimane condizionata dalla loro non piena appartenenza. Non
possono svolgere nella comunità ecclesiale quei servizi che
esigono una pienezza di testimonianza cristiana (i servizi
liturgici ed in particolare quello di lettori, il ministero
di catechista, l’ufficio di padrino per i sacramenti, la partecipazione
ai consigli pastorali). Non si possono invece escludere dall'ufficio
di testimone nella celebrazione del matrimonio; tuttavia saggezza
pastorale chiederebbe di evitarlo.
La riammissione è possibile solo quando i divorziati risposati
cessano di essere tali. Essi devono essere sinceramente disposti
ad una forma di vita non più in contrasto con l’indissolubilità
del matrimonio, o ritornando, se possibile, all’originaria
convivenza matrimoniale, oppure impegnandosi per un tipo di
convivenza che contempli l’astensione dagli atti propri dei
coniugi.
Infatti, qualora la loro situazione non presenti una concreta
reversibilità (per l’età avanzata, o la malattia di uno o
di ambedue, la presenza di figli bisognosi di aiuto e di educazione
od altri motivi analoghi), la Chiesa li ammette all’assoluzione
ed alla Comunione se, sinceramente pentiti, si impegnano ad
interrompere la loro reciproca vita sessuale ed a trasformare
il loro vincolo in amicizia, stima ed aiuto vicendevoli. In
questo caso, possono ricevere l’assoluzione ed accostarsi
alla comunione, ma in una chiesa dove non siano conosciuti,
per evitare lo scandalo, che potrebbe indurre i fedeli a credere
in un cambiamento della fede e della vita della Chiesa.
d) A maggior ragione, tutto
questo vale anche per chi convive o ha contratto solo matrimonio
civile, perché non si è sposato nel Signore. Essi dovranno
celebrare il matrimonio-Sacramento prima di essere ammessi
agli altri Sacramenti. Particolare prudenza sarà richiesta
nei confronti di coloro che hanno già vissuto in precedenza
un’esperienza di matrimonio civile.
3. Difficoltà e “punti fermi”
- Si accusa talora di ipocrisia l’atteggiamento della Chiesa,
quasi che si riduca tutta la coniugalità alla sessualità genitale
o si imponga un impossibile amore senza gesti di amore. In
realtà la Chiesa si limita a riconoscere la realtà per quello
che è: in alcuni casi esiste una “famiglia”, con i suoi affetti
e le sue responsabilità; ma non esiste un matrimonio-Sacramento,
e quindi una situazione coniugale che esprima la fedeltà del
Cristo sposo alla Chiesa sposa, l’unica situazione che rende
legittima nei battezzati una vita coniugale.
Si tratta, infatti, di valutare attentamente l’importanza
dei gesti come segni di un effettivo impegno di conversione,
e quindi della reale situazione che si vive. Perciò, anche
l’atto sessuale deve esprimere la condizione di vita, e la
sua astensione riconosce la realtà per quello che è (in questo
caso l’assenza di un matrimonio valido per la Chiesa).
A livello teologico si nota però anche come, particolarmente
per i divorziati risposati, occorrerebbe pure rilevare che
il cammino di conversione comporta una gradualità, per cui
si dovrebbero meglio considerare le tappe di un possibile
itinerario. In ogni caso, si dovrebbe poter contare su indicazioni
orientative della legittima autorità, che per il momento non
sono state fornite. Viene invece ribadito l’insegnamento tradizionale.
Infatti la Lettera della Congr. per la Dottrina della Fede
richiama la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia,
affermando come “ricevere la Comunione eucaristica in contrasto
con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa
in sé contraddittoria” (n. 9; EV 14/1463).
3. Problemi di morale sessuale: masturbazione, omosessualità, rapporti pre-matrimoniali
Il piacere sessuale è moralmente
disordinato quando è ricercato per se stesso, al di fuori
del rapporto coniugale, aperto alle finalità di unione e di
procreazione (cf. C 2351).
“Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà
sessuale, al di fuori dei rapporti coniugali normali, contraddice
essenzialmente la sua finalità. A tale uso manca, infatti,
la relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella
che realizza, ‘in un contesto di vero amore, l’integro senso
della mutua donazione e della procreazione umana’ [GS 51].
Soltanto a questa relazione regolare dev’esser riservato ogni
esercizio deliberato della sessualità” (PH 9: EV 5/1731; EF
1521; cf. C 2352).
In tale disordine rientrano diversi comportamenti, tra i quali
la masturbazione, le relazioni omosessuali, i rapporti pre-matrimoniali.
3.1. Masturbazione
Consiste nel darsi il piacere sessuale, attraverso l’eccitazione
volontaria degli organi genitali.
Su un piano semplicemente umano e psicologico, è noto che
si ricorre alla masturbazione soprattutto nella fase narcisistica
dell’adolescenza o in occasione di insuccessi, di sofferenze
non accettate, che spingono a chiudersi in se stessi. Quando
è praticata dall’adolescente frequentemente riveste più significati:
a quello evolutivo-sessuale, espresso anche dalle fantasie
coltivate, si accompagna una sorta di “esplorazione” del proprio
corpo. Essa però può anche nascondere reazioni difensive,
forme di ansietà, solitudine affettiva, ricerca di compensazione,
sentimenti di colpa e di disistima di sé, che essa stessa
provoca, in una sorta di circolo vizioso assai tenace.
Nell’adulto può essere sintomo di alcune forme di nevrosi
e particolarmente di una certa immaturità psicologica.
Tale comportamento lascia frequentemente insoddisfatto chi
vi fa ricorso.
Sebbene paia assai frequente nel processo di maturazione dell’individuo
od in momenti di frustrazione, non si può però ritenere “normale”,
nel senso di corrispondente alla “norma” autentica della sessualità
umana. Non si può dunque ritenere necessaria, né semplicemente
porre sul medesimo piano di comportamenti involontari che
si realizzano durante il sonno. Questo va riaffermato anche
di fronte ai risultati di diverse inchieste al proposito (cf.
M 250). Infatti
“Le inchieste sociologiche possono indicare la frequenza di
questo disordine secondo i luoghi, la popolazione o le circostanze
prese in considerazione; si rilevano così dei fatti. Ma i
fatti non costituiscono un criterio che permette di giudicare
del valore degli atti umani” (PH 9: EV 5/1732; EF 1522).
Per sua stessa natura la masturbazione contraddice il significato
cristiano della sessualità vissuta come alleanza d’amore.
Non vi si riscontra niente della donazione reciproca e feconda
di Cristo e della Chiesa. L’esercizio della facoltà sessuale
è privo di ogni rapporto effettivo con un partner, tanto che
l’individuo si ripiega su se stesso nella ricerca del proprio
piacere.
Oggettivamente dunque la masturbazione rimane un disordine
grave. Occorre però anche tener presente che a livello soggettivo,
la gravità può essere talora attenuata dalla situazione in
cui la persona vive, particolarmente durante l’adolescenza
e in fasi depressive.
La responsabilità personale può essere diminuita, oltre che
dai fattori consueti, dall’immaturità psicologica, dallo smarrimento
interiore, dal peso delle abitudini. La psicologia moderna
offre, in questo campo, parecchi dati validi e utili, per
formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale
e per orientare l’azione pastorale. Va però ricordato che
“in generale, l’assenza di grave responsabilità non deve essere
presunta; ciò significherebbe misconoscere la capacità morale
delle persone” (PH 9: EV 5/1733; EF 1523).
La strada per liberarsi e per educare alla genuina libertà
in questo campo va individuata nell’operare in senso contrario
alla dinamica che conduce a tale comportamento. Se la masturbazione
è collegata al ripiegamento su se stessi, si tratta di sviluppare
quegli atteggiamenti e comportamenti che distolgono da sé
ed aprono a Dio, al prossimo, al mondo, alle proprie responsabilità.
La pastorale è chiamata a scoprire e far emergere le potenzialità
della persona, favorendo la tensione verso la crescita. Per
questo sarà importante aiutare il soggetto ad uscire dall’isolamento
affettivo, rafforzare in lui la stima ed il rispetto di sé
e della sua dignità, offrirgli obiettivi positivi di maturazione
personale, realisticamente possibili nella sua situazione.
Nella consapevolezza che spesso sarà necessario puntare su
tempi lunghi, sulla maturazione graduale della personalità
morale.
Una vita equilibrata, con adeguato riposo e giusta “coltivazione”
dello spirito e del corpo (compresa una certa attività fisica,
senza cadere nell’idolatria del corpo o dello sport!), costituisce,
come per altri campi della morale, il contesto in cui la persona
può crescere nel bene e resistere all’attrazione del male.
Tutto questo senza mettere in dubbio la valutazione morale
negativa della masturbazione dal punto di vista oggettivo,
ma ricordando che l’aiuto più grande che giunge dalla fede,
in questo campo del vissuto etico, consiste non tanto in una
migliore definizione del peccato, pure necessaria, quanto
nella certezza di un Amore più grande delle nostre fragilità
e lentezze e che è anche la vera sorgente del nostro impegno
morale e della nostra capacità di crescere nell’amore.
Nei confronti della masturbazione a fini diagnostici e procreativi
cf. Donum vitae II,6 (EV 10/1231; EF 1621).
3.2. Omosessualità
Consiste nel comportamento sessuale, provocato da un’attrattiva
erotica preferenziale e talvolta esclusiva verso persone dello
stesso sesso. Si può parlare di vera omosessualità in presenza
di un’attrattiva sessuale verso persone dello stesso sesso
e di una repulsione per l’altro sesso con carattere di esclusività
e stabilità, che ne fanno una vera struttura psichica, la
cui genesi rimane in gran parte inspiegabile (cf. C 2357).
Non si può invece applicare pienamente tale categoria nei
confronti di una condotta omosessuale soltanto transitoria
che può verificarsi, ad es., in una fase dell’adolescenza
o durante fasi di convivenza, prolungata ed assai chiusa,
con individui dello stesso sesso.
Si deve distinguere al riguardo la tendenza dalla pratica
omosessuale. La tendenza non è il risultato di una scelta,
per cui non ha in sé una rilevanza etica in senso proprio.
A volte si afferma che si tratta di un’inclinazione “naturale”,
intendendo che essa costituisce una modalità della sessualità
altrettanto “naturale” quanto l’eterosessualità. La “natura”
in questo caso si identificherebbe con le cose così come stanno
di fatto.
Dal punto di vista morale tuttavia, non si può accettare una
tale lettura: in campo etico, quando si tratta della “natura”
o della “legge naturale” non ci si riferisce alle cose come
stanno di fatto, ma a come dovrebbero stare per corrispondere
alla loro verità profonda (ovvero per essere in linea con
il piano, il progetto di Dio). Ora, il “modello” omosessuale
non è “naturale”, ordinato in questo senso.
Infatti a livello oggettivo il giudizio sulla pratica omosessuale
non può che essere negativo. Il comportamento omosessuale
contraddice la struttura dell’amore cristiano. Non riconosce
infatti la diversità interiore nella differenza dei sessi
ed esclude al tempo stesso la fecondità.
“Secondo l’ordine morale oggettivo, le relazioni omosessuali
sono atti privi della loro regola essenziale e indispensabile.
Esse sono condannate nella sacra Scrittura come gravi depravazioni
e presentate, anzi, come la funesta conseguenza di un rifiuto
di Dio” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
Paolo pone in relazione la “scelta” omosessuale con il rifiuto
di Dio e l’idolatria:
“Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del
loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché
essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno
venerato e adorato la creatura al posto del creatore… Per
questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne
hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura.
Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale
con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri,
commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo
così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento”
(Rm 1,24-27).
Sempre Paolo menziona l’omosessualità all’interno di un “catalogo”
di vizi che escludono dal Regno (cf. 1 Cor 6,10; 1 Tm 1,10).
Il giudizio della Scrittura non consente certamente di concludere
che tutti coloro che vivono tale situazione ne siano personalmente
responsabili, ma
“esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente
disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche
approvazione” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
D’altro canto anche sul piano puramente umano e psicologico,
va notato come la relazione omosessuale manca di una vera
alterità: l’“altro” amato non è veramente tale, poiché appartiene
allo stesso sesso; e la relazione non può sfociare - non solo
accidentalmente, come talora avviene nel Matrimonio a causa
di sterilità, ma per sua stessa natura - nella terza “altra”
persona, rappresentata dal figlio.
Occorre però distinguere tra il comportamento omosessuale
e la “persona”. Mentre il comportamento non può trovare una
giustificazione oggettiva, la persona va sempre accolta con
rispetto e con amicizia, specialmente dai fratelli nella fede,
tanto più che talora (o spesso?) si tratta di soggetti che
soffrono per la loro situazione o per le conseguenze che ne
derivano. Perciò
“La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza; ma non
può essere usato nessun metodo pastorale che, ritenendo questi
atti conformi alla condizione di quelle persone, accordi loro
una giustificazione morale” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
Quanti scoprono in sé una tendenza omosessuale involontaria
non devono perciò scoraggiarsi. La tendenza in quanto tale,
come dato di fatto involontario, non è peccato. La persona
si trova in una situazione che la inclina in direzione disordinata
(ovvero non conforme alla “norma” del progetto di Dio, presentato
dall’ordine morale), spesso penosa, ma non di per se stessa
in colpa.
Sul piano morale la responsabilità è legata all’uso libero,
cioè volontario, delle proprie tendenze spontanee, tanto naturali,
quanto disordinate. La tendenza involontaria va indirizzata
e finalizzata. Basti considerare come ciò debba avvenire anche
in altri ambiti: la persona è chiamata ad indirizzare la tendenza,
che potrebbe avvertire, al sadismo, all’ira, alla cleptomania…
L’unica proposta autenticamente umana e cristiana per la persona
omosessuale è la vita casta, senza rapporti sessuali. Anche
persone eterosessuali, per ragioni indipendenti dalla loro
volontà, si trovano a vivere il celibato. La tendenza omosessuale
può diventare una delle ragioni per cui un cristiano accetta
di vivere nel celibato, per amore di Gesù. Si tratterà comunque
di un celibato autentico, vissuto con grande profondità interiore.
3.3. I rapporti pre-matrimoniali
Il Direttorio di pastorale familiare afferma che “Il tempo
del fidanzamento non è soltanto un momento di passaggio e
di preparazione ad un futuro: è un tempo in se stesso importante.
È tempo di crescita, di responsabilità e di grazia” (DPF 41).
a) Tempo di crescita: le persone maturano nella capacità di
vivere insieme, “costruiscono” la coppia, si allenano alle
fatiche, anche psicologiche, della vita a due; precisano,
condividono e consolidano le convinzioni in grado di reggere
la convivenza di tutta una vita; si affinano nella conoscenza
reciproca. In tal modo, vivono un importante periodo di tirocinio
della coppia.
b) Tempo di responsabilità, soprattutto in chiave vocazionale.
È una stagione della vita in cui i fidanzati sono tenuti ad
interrogarsi sulla loro vocazione al Matrimonio e sulla loro
reciproca scelta. La responsabilità si esprime nel dare stabilità
alla loro relazione e nel sostenere il fidanzamento con un
amore casto: non si tratta più soltanto di una generica amicizia,
ma di un cammino verso l’esclusività, che comporta impegni
seri e nuovi, anche se non ancora definitivi.
c) Tempo di grazia: il fidanzamento trae forza dal Battesimo
e dalla stessa vocazione coniugale che attende di essere concretizzata.
È tempo di formazione caratterizzato da una propria spiritualità;
è momento privilegiato di crescita nella fede, nella preghiera,
nella vita della Chiesa, nella carità.
Quando il rapporto affettivo ha assunto un carattere stabile
e maturo e tiene in seria considerazione la prospettiva del
matrimonio, le persone avvertono come il loro amore tenda
a manifestazioni sempre più impegnative.
Per essere moralmente giuste ed umanamente costruttive, esse
dovranno rispettare l’insegnamento tradizionale della morale
cristiana, secondo la quale la forma più intensa di unione,
il livello più alto dell’intimità, quello dell’unione sessuale,
può essere proprio solo dello stato matrimoniale vero e proprio,
sancito e reso indissolubile dal sacramento e riconosciuto
come tale dalla comunità ecclesiale (e civile). Non sono ammissibili
comportamenti che suppongono già quella fusione delle esistenze
che è propria solo dei coniugi. In altre parole, due persone
diventano “una sola carne” quando sono legate per sempre.
Ogni altra norma riveste un significato prudenziale in rapporto
a questa.
I cosiddetti rapporti prematrimoniali si pongono come segno
di una realtà che ancora non esiste, poiché non possono esprimere
ed attuare una comunione di amore totale, definitivo e pubblicamente
riconosciuto, che si realizza solo con il matrimonio. Per
i battezzati poi gli stessi rapporti costituiscono l’uso disordinato
della sessualità umana: essi non sono e non possono essere
un segno vero di quell’amore nuovo che Gesù dona agli sposi
con il sacramento del matrimonio; sono piuttosto una sua contraffazione
(cf. DPF 47; PH 7: EV 5/1726-1727; EF 1516-1517).
Per molti aspetti la proposta cristiana appare profondamente
ragionevole. L’amore impegna a responsabilità sociali e non
è autentico se non accetta i vincoli sociali correlativi,
espressi nell’istituto del matrimonio.
Per il cristiano, poi, questa dimensione sociale ha un significato
particolare: il matrimonio è per lui un sacramento, cioè un
evento di salvezza, un incontro con Cristo. Ma tale incontro
si attua di fatto nella comunità ecclesiale ed attraverso
la mediazione della Chiesa. Il patto coniugale non è solo
una formalità giuridica, ma partecipazione all’Alleanza. Tra
i due coniugi esiste un legame “in Cristo”: Cristo diviene
il senso ultimo ed il sostegno del loro amore umano.
“Prima del matrimonio”, dunque, non significa per il cristiano,
prima di un rito o di una certificazione anagrafica, ma “prima
del sacramento”, cioè al di fuori della Chiesa, e quindi di
Cristo. D’altra parte, è facile supporre che spesso, anche
psicologicamente, il rifiuto di un simile impegno renderà
l’unione meno espressiva di un amore autentico.
In questo impegno a non vivere l’unione sessuale ed a non
porre comportamenti che ad essa si equivalgono, prima del
riconoscimento sacramentale dell’amore, sono compresi obblighi
e responsabilità diversi. Se infatti per il credente l’amore
non è mai completamente se stesso al di fuori del sacramento,
esso è molto più infedele alle sue esigenze di autenticità
quando impone ad uno dei partner un comportamento che viola
le sue aspirazioni e la sua libertà.
3.4. Educarsi ad amare
L’esperienza morale ha sempre l’aspetto di un processo di
plasmazione della personalità, è sempre una forma di educazione,
un “e-ducere”, cioè far emergere dall’uomo tutte le possibilità
di umanità che in esso sono presenti. Realizzando il bene,
l’uomo costruisce se stesso in quanto persona. L’esperienza
morale ha, dunque, sempre la dimensione di un fatto educativo,
in cui il soggetto è insieme educatore ed educando.
Questo è vero in modo particolare per l’etica sessuale, appunto
per il carattere evolutivo della sessualità stessa. Tutta
la morale sessuale può essere vista in funzione della crescita
dell’amore.
Gli istinti ed i sentimenti con cui la sessualità si affaccia
alla vita dell’uomo sono orientati all’amore, ma sono pure
ambigui, alla ricerca di una fisionomia morale che sarà il
soggetto stesso a dare loro.
Tale costruzione si realizza nella libertà. L’uomo porta già
in sé certe premesse di riuscita o fallimento, certi condizionamenti
positivi o negativi; ma tutto questo resta affidato in misura
sempre decisiva alle sue libere scelte. Giunge per tutti il
momento in cui ci si impegna nell’orientamento del proprio
sviluppo: la riuscita od il fallimento del proprio diventare
uomini dipendono da questo.
La castità cristiana è un amore che si realizza, che cresce
e si garantisce la sua autenticità, in un processo autoeducativo
senza limiti: la castità cristiana è l’educazione dell’amore.
La modalità educativa dell’etica sessuale impone l’adozione
del criterio pedagogico fondamentale: il principio di gradualità.
A sostenere e stimolare tale crescita nell’amore dev’essere
una pedagogia che sappia mediare l’appello morale dei valori,
mettendolo in rapporto al livello di maturità raggiunto dall’educando
ed al ritmo di crescita che gli è concretamente possibile.
Le norme che rispecchiano l’ordine morale oggettivo - necessariamente
espresse in forma assoluta - nella misura in cui sono rivolte
ad una persona concreta in una situazione concreta, devono
essere interiorizzate ed applicate da questa persona. Senza
perdere la loro oggettività, esse diverranno appello concreto
per una persona concreta, seguendo le leggi di una morale
dinamica ed educativa.
Esse indicano una direzione di marcia. Il vero confine tra
il bene e il male passa all’interno di ogni situazione concreta:
il bene è davanti a me; il male è appena dietro le possibilità
di bene che mi sono offerte. Sono chiamato a superare me stesso,
sforzandomi di andare oltre, nella direzione indicata dalla
norma. Se questo è vero in ogni campo della morale, lo è particolarmente
in campo sessuale, un campo in cui l’uomo sperimenta impegnative
difficoltà.
Giovanni Paolo II riconosce che l’uomo “chiamato a vivere
responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un
essere storico che si costruisce giorno per giorno con le
sue numerose scelte: per questo egli conosce, ama e compie
il bene, secondo tappe di crescita”, senza che però la c.d.
legge di gradualità si identifichi con la gradualità della
legge (cf. FC 34; EV 7/1631-1632; EF 581-582).
Tale realtà può esistere perché si tratta di piani diversi:
responsabilità soggettiva e ordine morale oggettivo. La conciliazione
di questi due piani si attua nell’impegno morale personale,
vissuto come autoeducazione, e nell’azione pastorale della
Chiesa esercitata in chiave pedagogica.
La pedagogia ispira un’azione di sostegno e di stimolo, che
ha come solo scopo la crescita umana dell’educando. L’insegnamento
della Chiesa è al servizio di tale crescita. Lo stesso annuncio
della verità oggettiva non è servizio ad una verità astratta,
ma alla concreta verità dell’uomo in divenire. Adesione incondizionata
alla verità e graduale attuazione di essa nella vita sono
momenti ugualmente importanti di questa crescita.
Non si tratta quindi di imporre dall’esterno una soluzione
morale “prefabbricata”, ma di aiutare le persone stesse a
scoprire le giuste esigenze dell’amore, a partire da una riflessione
sulla loro esperienza e nel rispetto della loro coscienza
e dei loro ritmi di crescita umana e cristiana, anche se ciò
può comportare il pericolo di lentezze e di infedeltà.
Questo - naturalmente - senza rinunciare ad una testimonianza
leale della dottrina cristiana in tutto il suo rigore e la
sua serietà.
In questa linea andrà valorizzato il carattere educativo delle
rinunce. Esse non costituiscono tanto un espediente pastorale
al fine di una recezione ed attuazione delle norme morali,
quanto un segno di fedeltà alle esigenze dell’amore e degli
altri valori o significati della sessualità. La morale cristiana
vede nella rinuncia non solo una dura necessità, ma il risvolto
della realizzazione positiva dei valori morali.
Inoltre la fede consente di vivere tali rinunce nella luce
della partecipazione al mistero pasquale di Cristo, al quale
il credente è stato iniziato nel Battesimo: rinunciare è morire
a se stesso per vivere per Dio (cf. Rm 6,1-14; 2Cor 4,10;
5,14-15). Si tratta di sviluppare la sincerità e la libertà
interiore dell’adesione al bene. Le rinunce richieste dalla
castità sono costruttive nella misura in cui sono interiorizzate
e vissute nella luce dei valori che permettono di realizzare.
La vera adesione ad un valore può costare, ma produce la serenità
e la pace interiore che vengono dal sapere che questo è un
valore per la persona.
Preghiera, vigilanza e volontà forte, allenata alle difficoltà,
sosterranno la persona nella fedeltà necessaria.
4. Accoglienza della vita:
procreazione, fecondazione artificiale, aborto
4.1. Bioetica: scienza del
valore della vita
Entriamo ora più specificamente nell’ambito della morale della
vita fisica. Esso viene indicato frequentemente anche col
termine “bioetica”. Si intende così designare lo studio sistematico
della condotta umana nell’area delle scienze della vita e
della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata
alla luce dei valori e dei principi morali (Warren Thomas
Reich). In pratica, la bioetica riguarda i grandi problemi
etici inerenti la vita e la sua qualità (aborto, eutanasìa,
accanimento terapeutico ecc.). Come formulazione terminologica,
la “bioetica” nasce con il volume di V.R. Potter, Bioethics:
Bridge to the Future (Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1971).
Numerosi sono i centri ed istituti di ricerca sorti a partire
dagli anni Settanta. Nel 1971, ad es., all’interno del Kennedy
Institut of Ethics della Georgetown University di Washington
(fondata dai Gesuiti nel XVIII sec.) sorge il Center of Bioethics,
che nel 1978 pubblica la monumentale Encyclopedia of Bioethics,
curata da W.T. Reich. Anche in Italia sorgono centri di ricerca:
a Milano il S. Raffaele; a Roma il Centro di Bioetica dell’Università
Cattolica; a Padova la Fondaz. Lanza; a Palermo-Acireale l’Ist.
Siciliano di Bioetica.
Fondamento ed esigenza primaria dell’ethos sulla vita è costituito
dalla sua sacralità ed inviolabilità. La vita è “sacra” poiché
vita della persona (in una visione religiosa scaturisce dal
Creatore e rimane sempre in relazione speciale con Lui, che
si erge a difensore dell’innocente). A tutela della vita sta
il comandamento “non uccidere” (Es 20,13; Dt 5,17). Esso,
mentre indica il confine estremo che non può mai essere valicato,
spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto, promozione
ed amore per la vita, divenendo, così, espressione dell’amore
del prossimo. Tale comandamento ha valore assoluto quando
si riferisce alla persona innocente.
La vita innocente va protetta. Infatti il primo diritto di
una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni, ed alcuni
sono anche più preziosi, ma quello è fondamentale, è la condizione
di tutti gli altri. Perciò esso deve essere protetto più di
ogni altro. Non spetta alla società, né alla pubblica autorità,
qualunque ne sia la forma, riconoscere questo diritto ad alcuni
e non ad altri: ogni discriminazione in questo campo è ingiusta.
Infatti, “non è il riconoscimento da parte degli altri che
costituisce questo diritto; esso esige di essere riconosciuto
ed è strettamente ingiusto il rifiutarlo” (De ab. proc. 11;
EV 5/672).
La vita conserva il suo valore anche in condizioni di precarietà:
essa va rispettata dal suo inizio (la dignità del bambino
non ancora nato: cf. profeti, visitazione), sino alla vecchiaia,
alla sofferenza, di fronte alla morte (importanza della vita
corporale; cf. le guarigioni di Gesù).
Il diritto alla vita inizia con la vita stessa, vita talora
ricercata ad ogni costo, talora invece rifiutata.
4.2. Fecondazione artificiale
a. La ricerca di un figlio - La nostra cultura è ricca di
contraddizioni che investono anche i figli: per molti la vita
è un “rischio” da evitare al punto da ricorrere all’aborto;
altri ricercano un figlio a tutti i costi.
Una ricerca che si va facendo sempre più diffusa, anche per
l’aggravarsi del fenomeno della sterilità. Il calo demografico
dei Paesi occidentali infatti non è dovuto solo a scelte personali.
Il tasso di infertilità è in aumento per i fattori più vari:
ambientali (urbanizzazione, inquinamento...), soggettivi,
patologici. Si possono distinguere fattori “esterni” (cibo,
fumo, alcolismo, sedativi, stupefacenti, composti chimici)
e “psicologici” (stress, ripercussioni di rapidi cambiamenti,
riduzioni di spazi familiari e sociali).
Le conseguenze della sterilità a loro volta sono molteplici:
in particolare sono possibili depressione e colpevolizzazione,
specialmente nella donna.
Perciò sempre più frequente è il riferimento a soluzioni presentate
nei termini più diversi, quali: “fecondazione artificiale”,
“riproduzione artificiale”, “procreazione assistita”.
Pur essendo molteplici, le tecniche possono ricondursi a due
tipologie di intervento:
- fecondazione in vivo (o intracorporea), quando l’incontro
dei gameti e la formazione dello zigote avviene all’interno
dell’apparato genitale femminile;
- fecondazione in vitro (o extracorporea) quando la formazione
dell’embrione avviene al di fuori dell’apparato genitale,
dove poi viene trasferito (embryo-transfer) a vari livelli,
in rapporto alla metodica utilizzata.
Queste tecniche possono essere attuate con modalità:
- omologa: quando la fecondazione è frutto di gameti provenienti
dai due partners di una coppia;
- eterologa: quando uno dei gameti proviene da soggetto estraneo
alla coppia (donatore).
b. Riferimenti morali basilari
- Il criterio etico valutativo è segnato dalla originalità
del generare umano, che deriva dalla originalità stessa della
persona umana. L’atto personale a cui è affidata dalla natura
la trasmissione della vita umana è costituito dall’intima
unione d’amore degli sposi, i quali donandosi totalmente a
vicenda, donano la vita. Si tratta di un unico ed indivisibile
atto, insieme unitivo e procreativo.
L’uomo non ha la libertà di disconoscere e disattendere i
significati ed i valori intrinseci alla vita umana fin dal
suo sorgere: la dignità della persona umana richiede che essa
venga all’esistenza come dono di Dio e frutto dell’atto coniugale.
La procreazione umana non può essere considerata solo come
una conseguenza per così dire fisiologica dell’amore, ma come
qualcosa che fa parte della dinamica della donazione sponsale
e che partecipa pertanto della doppia dimensione corporea
e spirituale delle persone umane.
Ogni mezzo ed intervento medico, nell’ambito della procreazione,
deve avere una funzione di assistenza e mai di sostituzione
dell’atto coniugale. Ciò è coerente con una adeguata concezione
della medicina:
“La biologia e la medicina nelle loro applicazioni concorrono
al bene integrale della vita umana quando vengono in aiuto
della persona colpita da malattia e infermità nel rispetto
della sua dignità di creatura di Dio. Nessun biologo o medico
può ragionevolmente pretendere, in forza della sua competenza
scientifica, di decidere dell’origine e del destino degli
uomini. Questa norma si deve applicare in maniera particolare
nell’ambito della sessualità e della procreazione, dove l’uomo
e la donna pongono in atto i valori fondamentali dell’amore
e della vita” (DnV Intr. 3: EV 10/1164; EF 1554).
Sono questi valori e significati di ordine personale a determinare
dal punto di vista morale il senso e i limiti degli interventi
artificiali sulla procreazione e sull’origine della vita umana:
“Questi interventi non sono da rifiutare in quanto artificiali.
Come tali essi testimoniano le possibilità dell’arte medica,
ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento
alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la
vocazione divina al dono dell’amore e al dono della vita”
(DnV Intr. 3: EV 10/1165; EF 1555).
Se vuole essere ordinata al bene della persona, la medicina
deve rispettare i valori specificamente umani della sessualità:
Il medico è al servizio delle persone e della procreazione
umana: non ha facoltà di disporre o decidere di esse. L’intervento
medico è rispettoso della dignità delle persone quando si
propone di aiutare l’atto coniugale. Quando invece l’intervento
medico tecnicamente si sostituisce all’atto coniugale, non
risulta più, come dovrebbe, al servizio dell’unione coniugale,
ma si appropria della funzione procreatrice e così contraddice
alla dignità e ai diritti inalienabili degli sposi e del nascituro
(cf. DnV II,7; EV 10/1233-1234; EF 1623-1624).
Infatti, “l’origine di una persona umana è in realtà il risultato
di una donazione. Il concepito dovrà essere il frutto dell’amore
dei suoi genitori. Non può essere voluto né concepito come
il prodotto di un intervento di tecniche mediche e biologiche:
ciò equivarrebbe a ridurlo a diventare l’oggetto di una tecnologia
scientifica. Nessuno può sottoporre la venuta al mondo di
un bambino a delle condizioni di efficienza tecnica valutabili
secondo parametri di controllo e di dominio” (DnV II,4; EV
10/1219; EF 1609).
Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono, il “dono più
grande”. Non esiste un “diritto al figlio”; solo il figlio
ha veri diritti: di essere il frutto dell’atto di amore dei
suoi genitori, di essere rispettato come persona dal momento
del suo concepimento (cf. C 2378).
c. Alcune tecniche
1. Inseminazione artificiale
- Eterologa (con donatore), con eventuale ricorso alle cd.
“banche dello sperma” - È inaccettabile e perché disgiunge
nettamente momento unitivo e procreativo, e perché ci si troverebbe
di fronte ad una duplice paternità: ogni bambino ha diritto
di nascere dai suoi genitori.
- Omologa (all’interno della coppia) - È accettabile se facilita
l’atto naturale, e non lo sostituisce (si parla talora, in
tal caso, di “inseminazione artificiale impropriamente detta”).
Il problema è anche quello della raccolta del seme, che non
può essere eticamente ottenuto tramite la masturbazione:
“La masturbazione, mediante la quale viene normalmente procurato
lo sperma, è un altro segno di tale dissociazione [tra i due
significati dell’atto coniugale]; anche quando è posto in
vista della procreazione, il gesto rimane privo del suo significato
unitivo” (DnV II,6: EV 10/1231; EF 1621).
2. GIFT (Gamets Intra Fallopian
Transfer)
L’espressione (che significa “dono” in inglese) indica una
tecnica americana che consiste nel prelievo degli ovociti,
la loro collocazione in siringa accanto al seme maschile (ma
tenuti separati da una bolla d’aria), indi la loro iniettazione
nell’ampolla tubarica, dove avviene la fecondazione. È utile
nei casi di sterilità inspiegata o di ridotta fertilità del
coniuge.
Illecita in modalità eterologa, la sua liceità nel caso di
uso omologa è oggetto di discussione.
3. FIVET (Fecondazione In Vitro
con Embryo Transfer):
Consiste in una serie di interventi che vanno dalla raccolta
di ovuli maturi mediante laparoscopia, alla cultura in vitro
e fecondazione con spermatozoi debitamente preparati. Segue
il trasferimento degli embrioni così ottenuti in utero, destinando
al congelamento od alla morte gli embrioni “sovrannumerari”.
Numerosi sono gli aspetti problematici. Infatti i vari passaggi
della metodica sono tutt’altro che scontati e “naturali”;
alta è la percentuale di fallimenti (aborti). Eticamente si
distingue:
I. FIVET eterologa - È gravata della negatività etica di un
concepimento dissociato dal matrimonio. Il ricorso a gameti
di persone estranee agli sposi contrasta con l’unità del matrimonio
e la fedeltà degli sposi e lede il diritto del figlio ad essere
concepito e venire alla luce nel matrimonio e dal matrimonio;
“opera e manifesta una rottura fra parentalità genetica, parentalità
gestazionale e responsabilità educativa” che si ripercuote
anche nella società civile (DnV II,2: EV 10/1208; EF 1598).
II. FIVET omologa - Pur non essendo “gravata di tutta quella
negatività etica che si riscontra nella procreazione extraconiugale”
(DnV II,5: EV 10/1227; EF 1617), è “attuata al di fuori del
corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza
e attività tecnica determinano il successo dell’intervento”.
Così essa “affida la vita e l’identità dell'embrione al potere
dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica
sull’origine e sul destino della persona umana” (DnV II,5:
EV 10/1224; EF 1614).
Oltre queste ragioni intrinseche alla dignità della persona
e del suo concepimento, concorrono circostanze e conseguenze
negative relative al modo in cui è praticata oggi:
- Essa, infatti, è ottenuta al prezzo di numerose perdite
embrionali, che praticamente sono aborti procurati.
La fecondazione in vitro “ancora oggi, presuppone abitualmente
una iperovulazione della donna: più ovuli sono prelevati,
fecondati e poi coltivati in vitro per alcuni giorni. Abitualmente
non sono trasferiti tutti nelle vie genitali della donna...
Fra gli embrioni impiantati talora alcuni sono sacrificati
per diverse ragioni eugenetiche, economiche o psicologiche”:
(DnV II: EV 10/1198; EF 1588). Si tratta della cd “riduzione
embrionale”.
- Può comportare, inoltre, il congelamento (= sospensione
della vita) degli embrioni cosiddetti “soprannumerari” e spesso
anche la loro distruzione:
“Nella pratica abituale della fecondazione in vitro non tutti
gli embrioni vengono trasferiti nel corpo della donna; alcuni
vengono distrutti. Così come condanna l’aborto procurato,
la chiesa proibisce anche di attentare alla vita di questi
esseri umani... Agendo in tal modo il ricercatore si sostituisce
a Dio e, anche se non ne ha la coscienza, si fa padrone del
destino altrui, in quanto sceglie arbitrariamente chi far
vivere e chi mandare a morte e sopprime esseri umani senza
difesa” (DnV I,5: EV 10/1192; EF 1582).
- Inaccettabile è l’inseminazione post mortem, cioè con seme,
depositato in vita, del coniuge defunto.
III. Maternità sostitutiva - Impiantare nell’utero di una
donna un embrione che le è geneticamente estraneo o anche
solo fecondarla con l’impegno di consegnare il nascituro a
un committente, significa dissociare la gestazione dalla maternità,
riducendola ad una incubazione irrispettosa della dignità
e del diritto del figlio ad essere “concepito, portato in
grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori” (DnV
II,3: EV 10/1211; EF 1601).
IV. Moralmente riprovevoli sono anche tentativi o progetti
di fecondazione tra gameti umani e animali, di gestazione
di embrioni umani in uteri animali, di riproduzione asessuale
di esseri umani mediante fissione gemellare, clonazione...
Sulla clonazione vedi più oltre.
Conclusione - La Chiesa non
chiude alla ricerca tecnica ed all’approfondimento delle motivazioni,
da cui potranno derivare ulteriori precisazioni e convincenti
argomentazioni.
Il problema di fondo comune alle varie tecniche sembra essere
quello del figlio “ad ogni costo”, dimenticando come il figlio
sia un dono e non può mai essere trasformato in oggetto di
proprietà (cf. GS 50). Si fa strada una logica insieme “individualistica”
(sentimento) ed “attualistica” (senza attenzione al futuro
ed al sociale), che sconfina poi nella “logica della produzione”.
I criteri per una valutazione faranno riferimento a 3 princìpi:
- coniugalità: le finalità intrinseche della sessualità non
possono essere conseguite adeguatamente senza una unione stabile
e fedele della coppia;
- “naturalità”: l’atto coniugale dev’essere insieme unitivo
ed aperto alla vita;
- rispetto della vita nascente.
4.3. Aborto
L’inviolabilità della persona umana dal momento del concepimento
proibisce l’aborto come soppressione della vita prenatale.
L’aborto procurato, al dire del Concilio, è un “abominevole
delitto” (cf. GS 51: EV 1/1483; EF 23). La percezione della
sua gravità, nella coscienza di molti, è andata progressivamente
oscurandosi, ma “occorre più che mai il coraggio di guardare
in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome,
senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di
autoinganno” (EvV 58: EV 14/2362; EF 1305): non vi sono ragioni,
per quanto gravi e drammatiche, che possono giustificare la
soppressione deliberata di un essere umano innocente!
Molteplici e diverse sono le responsabilità e le complicità,
al punto che oggi “ci troviamo di fronte a quella che può
definirsi una ‘struttura di peccato’ contro la vita umana
non ancora nata” (EvV 59: EV 14/2366; EF 1309).
La S. Scrittura non parla mai di aborto volontario, tuttavia
essa mostra una tale considerazione dell’essere umano nel
grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche
ad esso si estenda il comandamento: “Non uccidere” (Es 20,13;
Dt 5,17).
La vita umana è sacra ed inviolabile in ogni momento della
sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita.
Fin dal grembo materno l’uomo appartiene a Dio, che tutto
scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani:
“Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel
seno di mia madre... Non ti erano nascoste le mie ossa quando
venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della
terra” (Sal 138 [139] 13.15). “Prima che tu uscissi alla luce,
ti avevo consacrato” (Ger 1,5).
Luca nell’episodio della Visitazione presenta Giovanni che,
nel seno di Elisabetta, avverte la venuta di Gesù, portato
da Maria (“Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei
orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”:
Lc 1,44).
La tradizione della Chiesa ha sempre ritenuto che la vita
umana deve essere protetta e favorita fin dal suo inizio,
come nelle diverse tappe del suo sviluppo.
Tertulliano (160-220ca) afferma: “È già uomo colui che lo
sarà [Homo est et qui est futurus]” (Apologeticum 9,8; cit.
in De ab. proc. 6; EV 5/667).
Nel corso della storia l’insegnamento ecclesiale si mantiene
costante. Le diverse opinioni circa il momento dell’infusione
dell’anima spirituale non portano a dubbi sull’illegittimità
dell’aborto, ma ad una differenza nella valutazione del peccato
e nella gravità delle sanzioni penali.
In tempi recenti alcuni han cercato di giustificare la soppressione
dell’embrione introducendo divisioni di tempo o di “natura”.
L’esempio più famoso è offerto dal Comitato Warnock (1984)
che, nominato dal governo inglese per esaminare il problema
della fecondazione in vitro e dell’embrione umano, giunse
a conclusioni contraddittorie. Da un lato riconosceva che
“da un punto di vista biologico non si può identificare un
singolo stadio nello sviluppo dell’embrione, al di là del
quale l’embrione in vitro non dovrebbe essere mantenuto in
vita”. D’altro canto, “al fine di tranquillizzare la pubblica
ansietà” [!], raccomandava, in base alla maggioranza dei membri,
che la legislazione disponesse “che la ricerca possa essere
condotta su ogni embrione risultante dalla fertilizzazione
in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine
del quattordicesimo giorno dalla fecondazione, ma soggetta
a tutte le alte restrizioni imposte dal Comitato di autorizzazione”
(cap. 11 del Rapporto finale; in A. Serra, L’embrione umano
“cumulo di cellule” o “individuo umano”?, CivCatt 152 [2001]
I, 348-362; 349-350). Una tale “indicazione” fu accolta a
livello legislativo, e non solo in Gran Bretagna.
A seguito dell’embriologa A. McLaren, alcuni denominano “pre-embrione”
il frutto del concepimento sino al termine dello stadio di
impianto (ca 14 giorni dopo l’ovulazione), riservando il termine
“embrione” alla fase successiva che si distingue per lo stadio
di stria primitiva.
In sé il termine “pre-embrione” potrebbe anche prestarsi ad
una benevola interpretazione linguistica, quale sostitutivo
di “embrione precoce” o di “embrione pre-impianto”. Esso non
è però accettabile se con esso si intende in sostanza “un
insieme di cellule che non è il vero individuo umano”.
Ma già i dati semplicemente biologici smentiscono tale interpretazione.
Infatti con la fecondazione inizia un nuovo ciclo vitale,
che prosegue ininterrottamente: siamo di fronte ad un “soggetto”
che si “autocostruisce” secondo quel programma iscritto nel
proprio genoma. Si sviluppa ciò che è già dato nel primo momento.
Già nello zigote (one-cell embryo: la cellula derivante dalla
fusione dei nuclei dei due gameti) è costituita l’identità
biologica di un nuovo individuo umano (cf. DnV I,1: EV 10/1177;
EF 1566). Lo zigote si sviluppa poi in blastociste, in disco
embrionale, in feto.
Il processo embrionale si presenta come uno sviluppo coordinato,
continuo e graduale. Siamo di fronte ad una ininterrotta e
progressiva “evoluzione” di un ben determinato individuo umano,
secondo un piano rigorosamente definito. Si tratta dello stesso
soggetto che si costruisce autonomamente, passando attraverso
stadi qualitativamente sempre più complessi, sviluppando quel
nuovo progetto e programma (inscritti nel proprio DNA), che
esso porta in sé dalla sua origine.
Tenendo presente lo sviluppo continuo che caratterizza la
nuova vita, non si potrà dunque parlare nei primi momenti
di vita semplicemente di un “cumulo di cellule” o di un “grappolo”
di cellule individuali distinte (cf. N. Ford). Tantomeno si
può considerare l’inizio dell’individuo umano all’apparire
della “stria embrionale primitiva” (15°-16° giorno) e parlare
in termini di “pre-embrione” dell’“essere” precedente. Tale
“stria embrionale” rappresenta solo il punto di arrivo di
un processo ordinato, senza soluzione di continuità, che è
iniziato dal momento della fecondazione. In ogni momento dello
sviluppo si tratta di un essere unitario.
Così pure, non contraddice il discorso il fatto della gemellanza,
per cui nei primi 10-15 giorni possono prendere origine dallo
stesso embrione (o, forse più propriamente, “zigote”) anche
più embrioni. In questo fenomeno avviene il distacco di una
o più cellule dotate ancora di totipotenzialità, cioè non
ancora differenziate: si tratta di cellule germinali che,
formate dallo zigote primitivo, possiedono un programma definito
di sviluppo e, determinando l’origine di un altro individuo,
nulla tolgono al primitivo (cf. in natura il caso del batterio).
Né può essere accettata l’opinione che, per essere davvero
umano, un individuo deve venire riconosciuto come uomo da
chi lo genera e lo introduce in relazioni personali, o accettato
come tale dalla società. Non si può poi confondere “identità”
ed “autonomia”, capacità di scelta.
L’unica conclusione possibile perciò è che l’embrione va considerato
“individuo umano” fin dal primo istante del concepimento:
“Dal momento in cui l’ovulo è fecondato, si inaugura una vita
che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere
umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso
umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di
sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme.
Essa ha mostrato come dal primo istante si trova fissato il
programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo
individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate.
Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita
umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo,
per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire” (De ab. proc.
12-13: EV 5/673-674; cit. in EvV 60: EF 1310).
In ultima analisi, “le conclusioni della scienza sull’embrione
umano forniscono un’indicazione preziosa per discernere razionalmente
una presenza personale fin da questo primo comparire di una
vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona
umana?” (DnV I,1: EV 10/1177; EF 1567; cf. EvV 60: EV 14/2367-2368;
EF 1310).
Il Magistero non si è espressamente impegnato su un’affermazione
d’indole filosofica relativamente al concetto di persona,
ma sostiene che al di là dei dibattiti scientifici e filosofici,
“l’essere umano va rispettato e trattato come una persona
fin dal suo concepimento” (DnV I,1: EV 10/1178; cit. in EvV
60: EV 14/2368; EF 1311).
Inoltre va anche ricordato come non spetta alle scienze biologiche
dare un giudizio decisivo su questioni propriamente filosofiche
e morali, come quella del momento in cui si costituisce la
persona umana. Dal punto di vista morale, anche se esistesse
un dubbio concernente il fatto che il frutto del concepimento
sia già una persona umana, è oggettivamente un grave peccato
osare di assumere il rischio di un omicidio (cf. De ab. proc.
13: EV 5/674; EvV 60: EV 14/2368; EF 1311).
La condanna morale di qualsiasi aborto procurato costituisce
dunque un insegnamento che “non è mutato ed è immutabile”
(DnV I,1: EV 10/1177; EF 1567; cf. EvV 60: EV 14/2367-2368;
EF 1311).
Il rispetto alla vita umana si impone perciò fin da quando
ha inizio il processo della generazione.
In alcuni casi, rifiutando l’aborto, si reca pregiudizio a
beni anche importanti, che è normale voler salvaguardare (ad
es., salute della madre, aggravio di un figlio in più, grave
malformazione fetale, gravidanza originata da violenza sessuale).
Queste difficoltà e le ragioni che le sorreggono non si possono
disconoscere o minimizzare. Si deve però affermare anche che
nessuna di esse può conferire oggettivamente il diritto di
disporre della vita altrui, anche se in fase iniziale: “la
vita, infatti, è un bene troppo fondamentale perché possa
essere posta a confronto con certi inconvenienti, benché gravissimi”
(De ab. proc. 14; EV 5/675).
La valutazione morale dell’aborto viene applicata ad altre
nuove forme di interventi sugli embrioni umani che ne comportano
l’uccisione.
5. Genetica e rispetto dell’embrione:
diagnostica pre-natale, clonazione, cellule staminali
5.1. Il “nuovo mondo” della
genetica
La biologia moderna ha contribuito a mutare profondamente
la nostra immagine del mondo, specialmente con i contributi
della genetica, la branca che studia le modalità di trasmissione
dei caratteri ereditari da individui di una generazione ai
discendenti.
Per comprendere i risvolti etici sono anzitutto necessarie
alcune nozioni basilari.
L’organismo umano è composto di cellule (ca 75.000 miliardi
in una persona adulta). Ogni cellula comprende al suo interno
il nucleo, che contiene i cromosomi (46 nelle cellule somatiche;
23 in quelle germinali, riproduttive - spermatozoo ed ovulo
- che, fondendosi, possono formare uno zigote umano di 46
cromosomi).
I cromosomi contengono le informazioni che dirigono la crescita
delle cellule, la loro differenziazione e strutturazione.
Ogni cromosoma è formato da due sottilissimi filamenti di
acido desossiribonucleico (DNA) avvolti a spirale, collegati
tra loro da quattro basi (Adenina, Timina, Guanina, Citosina),
che si dispongono in diverse “sequenze”. Nel DNA (la cui struttura
fu scoperta da J. Watson e F. Crick nel 1953) è inscritta
la programmazione che dirige lo sviluppo di tutto il corpo
umano. Ogni essere vivente è dotato del proprio DNA, ma la
diversa quantità e disposizione delle sequenze dà origine
a quella varietà di geni che costituisce la differenza tra
i viventi.
Il gene è un segmento di DNA che “ordina” la costruzione di
una determinata proteina. Il complesso dei geni forma il genoma.
In ogni cellula si trovano tutti i geni, cioè l’intero genoma
umano. Ogni cellula però utilizza soltanto una minima parte
del genoma, cioè il gene che le serve per produrre le “proprie”
proteine.
Il numero dei geni che costituiscono il genoma umano è ormai
noto e molto inferiore alle stime precedenti. Sino a non molto
tempo fa si riteneva infatti che i geni della nostra specie
fossero circa 100.000 mentre oggi sappiamo che essi si aggirano
intorno ai 30-40.000 (31.780, secondo i dati raccolti dal
Progetto Genoma Umano, e circa 37 mila secondo quelli della
Celera: cf. Repubblica.it 11/2/2001). Il numero è ancora un
po’ impreciso, ed è legato a valutazioni attendibili ma ancora
aperte a una valutazione finale.
I dati della genetica raccontano una storia complessa: ci
parlano di una somiglianza tra i viventi, di una peculiarità
umana che dipende da pochi geni e di una caratteristica tipica
della nostra specie, quella di una grande omogeneità biologica
alla base della “essenza” umana.
5.2. Biotecnologie (manipolazione
genetica)
Le nuove conoscenze hanno aperto la strada a nuove tecnologie,
grazie alle quali i geni sono isolati, esaminati, moltiplicati,
inseriti in cellule (cf. la tecnica del DNA ricombinante che
fa uso degli enzimi di restrizione). Il discorso non riguarda
dunque solo la conoscenza, ma il suo utilizzo.
a) Così, nell’ambito dei microrganismi gli sviluppi sono notevoli.
Nel campo alimentare si producono nuovi tipi di lieviti e
di fermenti; nel settore dei medicinali si realizzano nuovi
antibiotici, vitamine, vaccini... (cf. l’insulina).... Si
delineano tuttavia all’orizzonte anche pericoli, quali il
modificare, danneggiandolo, l’ambiente vitale dell’uomo, ed
il generare specie patogene, in grado di diffondere malattie.
b) Nel mondo vegetale grande sviluppo ha conosciuto l’ambito
delle ibridazioni interspecifiche (soia, mais, cotone, colza…).
Tuttavia, non sempre il gene “trapiantato” si è comportato
nell’organismo nel modo atteso.
c) Riguardo agli animali emergono difficoltà ancora più evidenti.
Se infatti si riescono a “produrre” animali con le caratteristiche
desiderate (sviluppo maggiore e più rapido, miglior rapporto
carne-grasso...), tuttavia essi soffrono anche di disturbi
congeniti.
d) L’ingegneria genetica rivolta direttamente all’uomo conosce
in sostanza queste applicazioni:
- studio e conoscenza di caratteri individuali e di gruppi:
analisi del DNA per l’accertamento della paternità..., diagnosi
prenatale di malattie genetiche...
- terapia per via somatica (che lascia inalterato il patrimonio
genetico del soggetto trattato).
- Sono ipotizzabili infine interventi a livello delle cellule
germinali per eliminare il pericolo di trasmissione nei discendenti
di una persona sofferente di male genetico. Su questa linea
ci si può spingere fino ad operare la clonazione umana: più
individui aventi lo stesso patrimonio genetico.
La conoscenza sempre più estesa del genoma umano con la possibilità
di trasferire, modificare o sostituire i geni, apre dunque
inedite prospettive e contemporaneamente pone problemi etici.
5.3. Conoscenza
I progressi della genetica trovano la loro applicazione in
campo diagnostico. La diagnosi prenatale, ad es., può far
conoscere le condizioni dell’embrione e del feto quando è
ancora nel seno della madre; permette, o consente di prevedere,
alcuni interventi terapeutici, medici o chirurgici, più precocemente
e più efficacemente. Occorre, però, considerare le indicazioni
che la rendono giustificabile ed il fattore rischio, che concerne
la vita e l’integrità fisica del concepito, e solo in parte
della madre, relativamente alle diverse tecniche diagnostiche
ed alle percentuali di pericolo che ciascuna presenta (secondo
il Comitato Nazionale per la Bioetica 1992: rischio di aborto
1% per l’amniocentesi; 1-3% per la biopsia dei villi coriali;
funicolocentesi 2%; possibilità di “falsi positivi”: cf. C.
Bresciani [ed.], Genetica e medicina predittiva: verso un
nuovo modello di medicina?, Giuffrè, Milano 2000, 138). Così
pure non si deve utilizzare la diagnosi per individuare malattie
che “giustifichino” la soppressione del nascituro.
Il numero dei disordini genetici diagnosticabili cresce continuamente
(uno dei più evidenti è il mongolismo, o trisomia 21 o sindrome
di Down). Solo in piccola parte è possibile attualmente una
terapia od una parziale attenuazione degli effetti di malattie
ereditarie.
Un grande numero di malattie d’origine genetica pongono invece
la medicina di fronte ad ostacoli insormontabili (ad es. la
miopatia e le aberrazioni cromosomiche: cf. Comm. Nat. Suisse
Justice et Paix, Éthique chrétienne et médecine moderne. Points
de repères sur des problèmes actuels, Labor et Fides, Genève
1999, 44-45).
Si tratta allora di rispondere con onestà alla domanda: conoscere
per curare o per “selezionare”? (cf. S. Spinsanti, Dottore
mio figlio sarà sano? Diagnostica prenatale e consulenza genetica,
S. Paolo, Cinisello B. [MI] 2002). Un discorso simile va fatto
anche nei confronti di analisi di un adulto tramite le quali
si diagnostica il rischio di una malattia. Tali informazioni
potrebbero essere fonte di discriminazione (cf. assicurazioni,
datori di lavoro).
5.4. Intervento
Per quanto concerne l’intervento si deve distinguere la manipolazione
terapeutica da quella alterativa.
- La manipolazione strettamente terapeutica si pone come obiettivo
la cura di malattie dovute ad anomalie geniche o cromosomiche
(terapia o “chirurgia” genica). L’intervento sarà considerato
in linea di principio auspicabile, purché tenda alla vera
promozione del benessere personale dell’uomo, senza intaccare
la sua integrità o deteriorare le sue condizioni di vita.
Si tratta di riportare le cellule malate ad una attività normale
mediante l’inserimento in esse di geni sani capaci di sostituire
quello alterato (operazione detta di “transfezione”). Gli
esperimenti condotti inducono ad un cauto ottimismo, ma bisognoso
di verifica a lungo termine Le ricerche infatti hanno concorso
a migliorare la diagnosi e la comprensione delle malattie,
ma i risultati sono difficilmente constatabili (cf. A. Bompiani
- E. Brovedani - C. Cirotto, Nuova genetica nuove responsabilità,
S. Paolo, Cinisello B. [MI] 1997, 30-31).
Fra le malattie trattate dalla terapia genica somatica con
qualche successo, anche se ancora in via sperimentale, vi
è, ad es., la deficienza di adenosina deaminasi (Ada; che
origina un’immuno-deficienza congenita combinata grave), ma
molte altre malattie sono candidate ad essere trattate. Fra
queste non vi sono solo quelle la cui causa è unicamente o
parzialmente genetica (come la fibrosi cistica o l’ipercolesterolemia
famigliare), ma anche quelle di origine non genetica, che
possono essere curate per mezzo di una modificazione del patrimonio
genetico del paziente (come nel caso dell’AIDS o di alcune
forme di tumore: cf. E. Lecaldano [ed.], Dizionario di bioetica,
Laterza, Roma-Bari 2002, 297).
Non bisogna però coltivare illusioni premature: c’è addirittura
chi afferma che i primi risultati significativi richiederanno
almeno cinquant’anni (D 47). Tuttavia, nonostante le attuali
difficoltà, la terapia genica sul lungo periodo ha ancora
le sue carte da giocare.
La manipolazione di cellule somatiche umane per fini curativi
(così come di cellule animali o vegetali per fini farmaceutici)
non solleva questioni morali.
In ogni caso, non si deve pregiudicare l’origine della vita
umana, cioè la procreazione legata all’unione non solamente
biologica, ma anche spirituale dei genitori. Resta perciò
esclusa la terapia genica germinale, che richiede, oltretutto,
una sperimentazione, non possibile sull’uomo per il notevole
rischio di errori e che potrebbe portare ad alterazioni intenzionali
del genoma umano, con mire eugenetiche.
- Ci colleghiamo in tal caso alla manipolazione alterativa
del patrimonio genetico umano, che comprende interventi non
propriamente curativi, miranti alla “produzione” di esseri
umani selezionati secondo il sesso od altre qualità prestabilite,
comunque alterativi del corredo genico dell'individuo e della
specie umana. Essi sono contrari alla dignità personale dell’essere
umano, alla sua integrità e alla sua identità. Non possono
quindi in alcun modo essere giustificati, nemmeno in vista
di eventuali conseguenze benefiche per l’umanità futura (cf.
DnV I,6: EV 10/1196; EF 1586).
Anche il Consiglio d’Europa ha affermato che i diritti alla
vita e alla dignità dell’uomo “implicano il diritto di ereditare
caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione”
(Raccomandazione 934 sull’ingegneria genetica [1982] 4,I,
in T 602).
5.5. Clonazione
Con tale termine (dal greco klon = germoglio) si indica la
produzione artificiale ed asessuata di cellule o individui
geneticamente identici ad altri già esistenti. Secondo il
fine, si distinguono due tipi di clonazione: riproduttiva
e terapeutica.
- La riproduttiva ha come scopo di ottenere la nascita di
un nuovo essere vivente uguale a quello clonato.
- La terapeutica ha lo scopo di “produrre” un embrione, che
sarà soppresso nei primi stadi dello sviluppo, per ricavarne
cellule e tessuti da trapiantare nel paziente, affinché possano
sostituirsi a quelle malate.
Vi sono differenti metodi di clonazione. Il più noto (che
dovrebbe essere più propriamente chiamato trasferimento nucleare),
è quello utilizzato per ottenere nel 1996 (dopo 277 tentativi,
di cui solo 8 hanno iniziato lo sviluppo embrionale e di cui
solo uno è giunto alla nascita) la famosa pecora Dolly e successivamente
un numero ormai notevole di altri mammiferi, dai topi ai bovini.
Con questa tecnica si preleva il nucleo di una cellula somatica
dell’individuo, si introduce in una cellula-uovo privata del
suo proprio nucleo e la cellula risultante si trasferisce
in utero (nel caso di Dolly l’ovulo e l’incubazione erano
però di una pecora di razza diversa). Il nucleo della cellula
somatica inserito nell’ovulo diventa totipotente (perde le
differenziazioni) e si sviluppa dando origine ad un individuo
geneticamente uguale al primo.
Recentemente (28/12/2002) è stata diffusa la notizia della
“produzione”, tramite un esperimento di clonazione riproduttiva,
di un essere umano, nella fattispecie una bambina, Eva. In
questo caso si sarebbe prelevato il nucleo di una cellula
della pelle di una donna, lo si sarebbe introdotto in una
cellula-uovo privata del suo proprio nucleo e la cellula risultante
sarebbe stata poi fatta crescere fino a dar vita a una bambina
di tre chili.
Dal punto di vista scientifico, tutto ciò non pare impossibile
(cf. E. Boncinelli, “Corriere della Sera” 28/12/2002). Il
procedimento è già stato realizzato diverse volte con altri
mammiferi e quindi anche con l’uomo potrebbe essere efficace.
Ma proprio gli esperimenti fatti in questi anni su vari animali
portano a considerare una nutrita serie di obiezioni tecniche
(numero di tentativi necessario; numero di donne coinvolte;
stato della bambina; quali probabilità di sviluppare disturbi
più o meno seri nei prossimi anni…). In assenza di tali dati,
si è indotti a credere che la notizia non sia fondata e se
lo è, non si può non essere seriamente preoccupati per la
salute della neonata.
Dal punto di vista morale, la clonazione riproduttiva animale
è lecita se finalizzata a ricerche scientifiche utili all’uomo,
ad es. nel campo dell’alimentazione, della salute… Va regolata
per conservare la biodiversità, per evitare pericoli all’uomo,
e per non cadere in uno sfruttamento scientifico e commerciale
incontrollato.
La clonazione riproduttiva umana invece è sempre gravemente
illecita. Tre sono i criteri antropologico-etici su cui si
basa questo giudizio:
a. L’identità individuale di ogni persona - La clonazione
è una violazione di tale identità tanto a livello biologico,
quanto psicologico. Biologico, poiché è lesivo della dignità
dell’uomo il dominio da parte di altri sulla propria costituzione
genetica (il genoma non è più “unico”, ma è programmato, in
base a scelte precise e selettive). A livello psicologico,
poiché nell’identità personale è coinvolto tutto il mondo
della personalità e delle capacità psichiche. Basti pensare
alla sofferenza del “clonato” che avverte di non essere voluto
in sé (come ogni figlio dovrebbe essere), ma in quanto “copia”
di un altro, del quale gli sono state “imposte” le qualità,
almeno biologiche.
b. L’indisponibilità della persona ad essere usata come mezzo
- Ultimamente il clone è voluto da qualcuno che si arroga
il diritto di disporre dell’identità di altri uomini, in vista
del conseguimento di fini diversi dalla persona stessa (quale
il soddisfacimento di desideri specifici del/i “genitore/i”).
c. La natura della sessualità e della procreazione umana -
Nella clonazione si avrebbe una procreazione senza sessualità,
con la chiara separazione fra le due realtà ed una rottura
radicale dei legami di parentela (padre-madre-figlio-fratello…).
5.6. Clonazione terapeutica
Ha lo scopo di “produrre” cellule e tessuti da trapiantare
nel paziente, affinché possano sostituirsi a quelle malate.
Tali cellule-tessuti sono prodotte a partire dalle cellule
staminali. Su di esse verte quindi il discorso.
Le cellule staminali (dall’ingl. stem = tronco) sono cellule
non ancora differenziate in tipi specifici di tessuto (sangue,
ossa, muscoli…), che possono dare origine ad altre cellule
differenziate dell’organismo, in modo da sostituire quelle
malate. Possono essere di due tipi:
- cellule staminali embrionali (Embryo Stem Cells = ES, Esc),
che formano l’embrione nelle sue primissime fasi di sviluppo,
sino allo stadio di blastocisto.
- cellule staminali in organismo già formato, dette anche,
forse meno propriamente, cellule staminali dell’adulto (Adult
Stem Cells = ASC). Esse sono presenti, ad es., nel cordone
ombelicale e nella placenta al momento della nascita (P/CB
= placental/Cord blood); ma anche nell’adulto in diversi centri,
come il midollo osseo (HSCs), il cervello (NSCs), il mesenchima
(MSCs) di vari organi. In anni recenti le staminali provenienti
da adulti stanno dimostrando una capacità di proliferazione
e di specializzazione mai sospettata finora dalla scienza.
Sono stati ottenute molte cellule staminali a partire da poche
cellule staminali provenienti da adulti o anche dal cordone
ombelicale o dalla placenta al momento della nascita (cf.
l’utilizzo delle cellule staminali da adulti nel trattamento
di leucemie, linfomi, mielomi…: R. Colombo, Cellule staminali
umane da embrioni e da organismi adulti. I - Aspetti scientifici
e clinici; II - Aspetti antropologici e morali, OR 11-12/9/2000,
10; OR 16/9/2000, 9).
Interessante notare come il feto invii delle proprie cellule
staminali alla madre, che vanno a collocarsi nei tessuti della
donna danneggiati da una patologia, per ristrutturarli e rigenerarli.
Queste cellule si trovano nella madre anche per molti anni
dopo la gravidanza (cf. Prof. Salvatore Mancuso, Dir. dell’Istituto
di Ostetricia e Ginecologia dell’Univ. Cattolica di Roma,
Congresso nov. 1991).
Il problema etico riguarda l’origine delle cellule. L’uso
delle cellule staminali in organismo già formato (impropriamente
dette staminali adulte) non presenta difficoltà etiche: esso
è lecito in quanto tali cellule sono prelevate senza danno
per i soggetti interessati.
Per le cellule staminali embrionali, il problema è assai serio,
poiché il loro uso comporta una lesione irreparabile dell’embrione
nei primi stadi del suo sviluppo, che viene così soppresso.
Esse infatti si possono ottenere dall’embrione nelle sue primissime
fasi di sviluppo, con l’ablazione della massa cellulare interna
(ICM) della blastociste, che lede gravemente e irreparabilmente
l’embrione, troncandone così lo sviluppo.
Pertanto, come nota la Pont. Academia pro Vita, non è moralmente
lecito produrre e/o utilizzare embrioni umani viventi per
la preparazione di cellule staminali embrionali. Non si può
infatti sopprimere l’embrione umano vivente che “sulla base
di una completa analisi biologica” è, a partire dalla fusione
dei gameti, “un soggetto umano con una ben definita identità,
il quale incomincia da quel punto il suo proprio coordinato,
continuo e graduale sviluppo, tale che in nessuno stadio ulteriore
può essere considerato come un semplice accumulo di cellule”
(PCS 469).
Ogni essere umano ha diritto alla vita e nessun fine, anche
se buono (come l’utilizzazione delle cellule in vista di procedimenti
terapeutici) può giustificare la sua uccisione.
La via più ragionevole ed umana da percorrere per un corretto
e valido progresso in questo campo nuovo che si apre alla
ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche consiste
dunque nella ricerca sulle cellule staminali adulte, anche
se si richiedono molti ulteriori passi prima di vedere risultati
chiari e definitivi.
6. Salute e malattia. Diritti
del paziente. Donazione e trapianto di organi
6.1. Salute: diritto e dovere
a. Cos’è la salute? - Come afferma la Carta Costituzionale
(22/7/1946) dell’Organizzaz. Mondiale della Sanità (OMS),
istituzione specializzata dell’ONU con sede a Ginevra, la
salute non è solo assenza di malattia, ma “uno stato di completo
benessere fisico, mentale e sociale”. Una tale illustrazione
per un verso è positiva, ma presenta anche aspetti discutibili.
È positiva in quanto assume un concetto di salute in prospettiva
globale, cui corrisponde un ampio concetto dell’attività sanitaria,
che non si limita a curare chi è già malato, ma si apre alla
triplice dimensione: preventiva, curativa, riabilitativa.
L’aspetto discutibile emerge dal fatto che la salute è presentata
come “stato” (in senso piuttosto astratto, astorico, impersonale)
e non tanto come “tensione”, da misurarsi con la situazione
del soggetto concreto, storico, nel suo ambiente reale.
L’attività sanitaria è infatti in relazione alla persona concreta,
nella totalità delle sue potenzialità, esigenze e condizionamenti
biologici, psichici, spirituali e sociali. Ne consegue il
superamento di una mentalità organicistica, che riduceva la
malattia a disfunzione organica, e di una prospettiva organico-psichica
che prescinda da esigenze ed eventuali disturbi “spirituali”.
Per “disturbi spirituali” intendiamo le tensioni conseguenti
a crisi di valori, ad inquietudini di coscienza, a caduta
di ideali, a crisi di fede. Ogni disturbo spirituale può riflettersi
in disturbo psichico e può avere riflessi nella funzionalità
organica, data la fondamentale unità dell'individuo, fatto
di un tessuto insieme organico, psichico, spirituale.
La salute può dunque definirsi piuttosto come: tensione dell’uomo
ad un benessere bio-psichico-spirituale e ambientale che favorisca
una realizzazione “umana” dell’esistenza nella situazione
in cui si trova.
Questa definizione “antropologica” della salute considerata
nella totalità dell’uomo specifica e qualifica la finalità
sanitaria, che non è mai priva di significato anche presso
il morente; è sempre aiuto all’uomo in questa lotta di vita;
è aiuto per una dignità o qualità di vita a misura d’uomo.
Non dimenticando la dimensione sociale, poiché “la salute
di tutti i popoli è condizione fondamentale per la pace nel
mondo e per la sicurezza” (costituzione dell’OMS).
b. Valore - Poiché la persona
è un valore e la persona è “corpo-spirito”, anche la salute
è un valore, dovere e diritto di ciascuno.
- Il dovere della salute - Ogni persona deve salvaguardare
ed accrescere, se possibile, la propria e l’altrui salute.
Non deve perciò attentare alla propria salute con fumo, droghe,
cattive abitudini (alimentari, sessuali), imprudenza nella
guida automobilistica, stress psico-fisico per eccesso di
lavoro, sports pericolosi, rifiuto di cure; né nuocere alla
salute degli altri sia direttamente (es.: percosse), sia indirettamente
(es.: rumori, inquinamento). La natura va infatti rispettata
come normale ambiente di vita dalla cui integrità dipende
la salute dell’umanità.
Non va omesso il dovere di contribuire, anche finanziariamente,
da parte di tutti, all’assistenza sanitaria. L’evasione fiscale,
pertanto, è fortemente immorale, perché mina alla radice il
concetto di “società solidale”. Tutti devono collaborare,
ciascuno secondo le proprie responsabilità, affinché tutti
ricevano adeguata assistenza.
Particolarmente delicato è il caso del rifiuto di cure, che
può avvenire per diversi motivi, dalla radicata avversione
agli interventi, alla diffidenza verso la tecnologia sanitaria,
a motivi ideologici (sciopero della fame, rifiuto di trasfusioni:
Testimoni di Geova…). Come principio generale è importante
rispettare la coscienza di tutti. Si potrà intervenire forzatamente
solo nel caso di perdita di coscienza o di pericolo immediato
e certo di vita per il bene del malato.
- Il diritto alla salute - Tenendo conto della visione globale,
la salute è uno dei diritti fondamentali, assicurato da numerose
“carte”. Ad es.:
Dichiaraz. univ. dei diritti dell’uomo art. 25, § 1: “Ogni
individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire
la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con
particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione,
e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”.
Cost. It. art. 32, § 1: “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Intesa nel senso globale di qualità della vita, rientra tra
i diritti fondamentali della persona. Non basta, cioè, vivere
più a lungo; occorre anche vivere un’esistenza il più possibile
sana, dignitosa, felice. Fa parte, quindi, del diritto alla
salute: la prevenzione delle malattie; la sanità dell’ambiente
naturale e degli ambienti “artificiali” di vita (casa, ufficio,
scuola…); l’educazione sanitaria; la cura della malattia.
Pertanto
- La società ha il dovere di provvedere, di assicurare a tutti
i membri un’assistenza sanitaria efficiente ed accessibile.
Per società intendiamo tutti coloro che in qualche modo sono
coinvolti: politici, contribuenti, operatori. In particolare,
chi lavora nelle strutture sanitarie ai vari livelli ha un
grave dovere morale di farle funzionare in modo corretto,
in vista della salute dei cittadini.
- L’assistenza di base, perché si rivolge a tutti, deve venir
privilegiata, sia come strutture che come impiego di personale.
Quella specializzata, pur importante, è di supporto alla precedente.
- Il volontariato può svolgere un ruolo importante per quei
settori nei quali l’assistenza pubblica o privata è assente.
Esso però dovrà costituire uno stimolo per le istituzioni,
e non un pretesto per il disimpegno. La sua originalità non
è la supplenza (benché a volte necessaria), ma la flessibilità
e la perspicacia nella scoperta delle situazioni di bisogno,
insieme a quella umanità nei rapporti, che nasce direttamente
dal “cuore” più che dal “mestiere”. Le strutture sono inevitabilmente
rigide e burocratiche; il volontariato può dire una parola
diversa, in riferimento, ad es., ai malati di AIDS, tossicodipendenza,
anziani, stranieri...
c. Malattia e malati - In correlazione
con la concezione di salute, si può distinguere tra:
- malattia come carenza di salute nel senso corrente; malattia
in senso clinico e usuale: ogni compromissione, di una certa
entità, dell’integrità o efficienza fisica e/o psichica; e
- malattia della persona: l’incapacità o l’insufficiente capacità
di utilizzare tutte le facoltà ed energie che si possiedono
in ogni situazione, anche difficile e dolorosa. Tale incapacità
si abbina e spesso si fonda su un’assente, od almeno insufficiente,
percezione del significato e valore della propria sofferenza.
Anche occupandosi della malattia “clinica”, secondo il linguaggio
comune, va mantenuta la consapevolezza delle profonde connessioni
con la “malattia della persona”. Del resto è “la persona come
tale che, nel corpo, è colpita dal male. La malattia e la
sofferenza, infatti, non sono esperienze che riguardano soltanto
il sostrato fisico dell’uomo, ma l’uomo nella sua interezza
e nella sua unità somatico-spirituale” (Lett. ap. motu proprio
Dolentium hominum, che istituisce la Pont. Commiss. per la
pastorale degli operatori sanitari, 11/2/1985; n. 2: EV 9/1410-1418,
1411).
Gesù si è mostrato particolarmente attento ai malati. “Medico
della carne e dello spirito”, con le numerose guarigioni mostra
l’amore del Padre ed indica la venuta del Regno (cf. Mt 11,2-6:
“Sei tu colui che deve venire…? Andate e riferite…”). I discepoli
a loro volta sono mandati a compiere una missione in cui l’annuncio
del Vangelo si accompagna alla guarigione dei malati (cf.
Mt 10,7-8; Mc 16,16-18; EvV 47: EV 14/2322; EF 1265).
Nella Chiesa è coltivata in modo particolare la pastorale
degli infermi e degli operatori sanitari. Quanto ai diritti
del paziente (cf. le numerose le carte dei diritti del malato),
vanno particolarmente affermati:
a) il diritto a non essere discriminato nell’accesso ai mezzi
della salute;
b) il diritto ad essere informato sulle sue reali condizioni.
Dovrà trattarsi di un’informazione possibilmente esauriente
e comprensibile; che tenga conto della situazione reale della
persona; che sia proposta nei momenti e modi opportuni; coinvolgendo
i familiari. Nella consapevolezza che, nel caso di prognosi
infausta, si tratta di un problema complesso che non ammette
soluzioni del tutto semplici;
c) il diritto a dare/rifiutare il proprio consenso per le
procedure diagnostiche o terapeutiche.
6.2. Donazione e trapianto
di organi
1. Motivazioni - Dal punto di vista morale, in primo luogo
è importante soffermarsi sulle motivazioni. Esistono infatti
ancora molte resistenze alla prassi dei trapianti sia per
quanto riguarda il giudizio di valore (coscienza), sia per
i regolamenti giuridici. Tenendo presente che spesso le leggi
seguono le convinzioni della pubblica opinione.
a. Garantire la vita - Si tratta di salvaguardare la sua essenzialità,
anche col sacrificio di qualche componente corporea della
stessa persona, o di qualche altra persona vivente, o addirittura
col sacrificio di un essere inferiore. Con il trapianto da
persona morta si “sostiene” la vita anche oltre la morte:
attraverso l’organo donato, si attua una specie di prolungamento
di una vita che viene meno in un’altra la quale, senza quel
dono, cesserebbe, o sarebbe notevolmente diminuita nelle sue
potenzialità. Questo in una sorta di profezia, che afferma
fiducia, speranza, gratuità, che ama la propria vita per amarla
in tutti.
b. Realizzare solidarietà - Ogni uomo, in certo senso, forma
un tutt’uno con qualsiasi altro uomo: la socialità, comunitarietà,
relazionalità... è essenziale perché una persona sia autenticamente
tale. Questo si verifica anche laddove manca la conoscenza
diretta personale. Con il trapianto si vive una gratuità che
giunge ad uno scambio/comunione anche nella fisicità organica.
c. Vivere concretamente la carità (l’amore cristiano) - Per
il cristiano il trapianto è una realizzazione degli insegnamenti
di Gesù:
Gv 15,12-13: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate
gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore
più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Mt 25,40: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste
cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me”.
Il cristiano sa di partecipare all’esperienza di Cristo, che
ha offerto la sua vita per la salvezza di tutti; ed è consapevole
di avere in sé la forza dello Spirito santo per esprimere
energie sconosciute di generosità, per “un cuore nuovo e uno
spirito nuovo” (cf. Ez 36,26).
Alle condizioni che saranno tra breve esposte, il dono gratuito
ed il trapianto di organi è conforme alla legge morale e può
essere meritorio (cf. C 2296; 2301). Anzi, tra i gesti di
condivisione che nutrono un’autentica cultura della vita “merita
particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta
in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità
di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza”
(EvV 86: EV 14/2451; EF 1394).
2. Tipi di trapianti
a) Autoplastici: l’espianto ed il reimpianto avvengono sulla
stessa persona. Essi sono legittimati dal principio di totalità,
in virtù del quale è possibile disporre di una parte per il
bene integrale dell’organismo.
b) Omoplastici: il prelievo
è operato su individuo della stessa specie del ricettore.
Sono legittimati dal principio di solidarietà che unisce gli
esseri umani e dalla carità che dispone al dono verso i fratelli
sofferenti. Il prelievo degli organi può avvenire da donatore
vivo o cadavere:
1. donazione da vivo - È legittima
a condizione che si tratti di organi il cui espianto non implica
una grave e irreparabile menomazione per il donatore: una
persona può donare soltanto ciò di cui può privarsi senza
un serio pericolo per la propria vita o identità personale,
e per una giusta e proporzionata ragione. I danni ed i rischi
fisici e psichici in cui incorre il donatore devono essere
proporzionati al bene che si cerca per il destinatario. È
perciò moralmente inammissibile provocare direttamente la
mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia
pure per ritardare il decesso di altre persone (cf. C 2296).
2. donazione da cadavere - Questo
non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di
diritto, perché è privo della personalità, che sola può essere
soggetto di diritto (famoso il primo trapianto di cuore realizzato
nel 1967 da Christian Barnard a Città del Capo). 2.1. Il prelievo
è lecito, perciò, solo a seguito di una diagnosi di morte
certa del donatore: per questo è necessario l’accertamento
della morte cerebrale del donatore, che consiste nella cessazione
irreversibile di ogni funzione cerebrale. Quando la morte
cerebrale totale è constatata con certezza, cioè dopo le dovute
verifiche, è lecito procedere al prelievo degli organi, come
anche surrogare artificialmente delle funzioni organiche per
conservare vitali gli organi in vista di un trapianto.
Anche secondo la legge del Parlamento italiano n. 578 (29/12/1993),
la morte è identificata con “la cessazione irreversibile di
tutte le funzioni dell’encefalo”. Per l’accertamento deve
essere compiuto un doppio elettroencefalogramma piatto, a
distanza di sei ore l’uno dall’altro.
Dal trapianto vanno, comunque, esclusi l’encefalo e le gonadi,
che assicurano l’identità, rispettivamente personale e procreativa,
della persona: si tratta di organi in cui prende specificamente
corpo l’unicità inconfondibile della persona, che la medicina
è tenuta a tutelare.
2.2. Occorre anche garantire rispetto e pietà delle spoglie
mortali del donatore: anche se esse non sono identificabili
con una persona viva, è pur vero che ne acquisiscono dignità
per essere state componenti della dimensione corporea, necessaria
e fondamentale per ogni espressione della persona stessa.
2.3. Nell’ambito di tale rispetto va richiesto il consenso
libero del donatore prima di morire (ad es., attraverso l’iscrizione
ad apposite associazioni) o dei suoi aventi diritto. Il trapianto
presuppone infatti una decisione libera e consapevole da parte
del donatore o di qualcuno che legittimamente lo rappresenti,
solitamente i parenti più stretti. Questo per esprimere il
carattere oblativo della donazione.
Deve, tuttavia, prevalere la
cultura della donazione sul culto del cadavere. È importante
lavorare perché l’opinione pubblica diventi sempre più sensibile
al problema dei trapianti, per la formazione di una mentalità
solidaristica. E questo a cominciare dai giovanissimi, specialmente
attraverso l’opera di sensibilizzazione di apposite associazioni
di donatori. Si tratta di attuare una dinamica culturale/operativa
che sia efficace, che susciti decisioni responsabili e risultati
concreti.
Una presenza solidaristica di questo tipo contribuisce a dare
consistente fiducia agli ammalati, ed anche ai loro familiari,
creando intorno a loro un interesse ed un’attenzione concreta
ed effettiva, contribuendo a toglierli dalla solitudine e
dalla disperazione.
Contribuisce inoltre ad approfondire il senso della vita,
che va oltre la morte; e della solidarietà, che va oltre la
reciproca diretta conoscenza, per una dimensione planetaria
dei rapporti interpersonali.
Cf. per l’Italia la Legge 1/4/1999, n. 91: Disposizioni in
materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti,
(Gazzetta Ufficiale n. 87 del 15/4/1999).
c) Trapianti eterologi: con
organi di individuo di specie diversa dal ricevente. Si deve
distinguere secondo i casi.
Nel caso di trapianti da animali, va osservato come non si
tratterebbe di offesa all’animale dovendo esso servire all’uomo,
purché non sia sottoposto a sofferenze ingiustificate. Inoltre
l’intervento dovrebbe corrispondere ad una vera necessità
del paziente, in mancanza di organi umani o artificiali, con
previsione di esito positivo (considerando pericoli di rigetto,
di trasmissione di agenti infettivi, di alterazione della
personalità…). Famoso è stato il caso di Baby Fae, la bambina
cui fu trapiantato nel 1984 un cuore di babbuino, ma che sopravvisse
per poco tempo. I trapianti di cellule fetali animali in pazienti
diabetici hanno dato recentemente buoni risultati (Le 330).
Attualmente si sta lavorando sul trapianto da maiali a primati
non umani, con aiuto dell’ingegneria genetica. Gli esperimenti
non sono tuttavia ancora soddisfacenti (cf. Pont. Academia
pro Vita, La prospettiva degli xenotrapianti. Aspetti scientifici
e considerazioni etiche, suppl. OR 26/9/2001).
Per quanto concerne gli innesti di organi artificiali, la
liceità è condizionata dall’effettivo beneficio per la persona
e dal rispetto della sua dignità.
7. Al termine della vita:
eutanasia, accanimento terapeutico e cura del malato terminale
7.1. Di fronte alla morte
a. L’enigma della morte - “Come sono effimere tutte le cose
composte! È loro natura il nascere e il morire; venendo, esse
se ne vanno; e giungono al meglio quando ciascuna incomincia
a cessare e tutto è riposo!” (preghiera buddista sul defunto,
prima di essere tumulato, riportata in Olem Rac, Il prodigo
seminatore, EMI, Bologna 1986, 278).
La morte rappresenta senza dubbio il fatto più misterioso,
di fronte al quale “l’enigma della condizione umana diventa
sommo” (GS 18; EV 1/1371), sia per il pensiero dell’approssimarsi
del dolore e della dissoluzione del corpo, quanto per il timore
che tutto finisca per sempre.
Le diverse culture hanno espresso diverse posizioni sul senso
della morte: alcune relativizzandola, altre drammatizzandola,
altre ancora rimuovendola.
Specie quest’ultimo è un modo di pensare culturalmente debole,
ma assai diffuso e dannoso, perché toglie verità e validità
ai problemi importanti, emargina le persone sofferenti, rende
sguarniti di fronte alla propria sofferenza-morte ed a quella
delle persone amate con conseguenze devastanti.
L’ethos dell’uomo contemporaneo nei confronti della morte
pare costruito intorno ai due punti del controllo di essa
e della soppressione del dolore, compreso il dolore morale
di rendersi conto di star morendo. Tale antropologia ha eliminato
due dimensioni assai valorizzate in passato in ambito cristiano:
- la morte come “pathos”, una passività di valore positivo,
come occasione della crescita umana suprema;
- il dolore come prova, che acquista significato attraverso
la simbolizzazione (croce) e l’etica (accettazione).
Gli eccessi di queste posizioni (provvidenzialismo e dolorismo)
andavano corretti, senza tuttavia disperdere i valori sottesi.
Riproporre tali valori appare come il compito profetico dell'etica
cristiana adatta al nostro tempo.
b. La morte del cristiano -
Anche il cristiano può provare la ripugnanza “naturale” verso
la morte, ma “l’istinto del cuore”, “il germe dell’eternità
che porta in sé” insorge giustamente contro la morte (GS 18;
EV 1/1371). Egli sa che
“Cristo è risorto dai morti,/ con la sua morte calpestando
la morte
e ai morti nei sepolcri donando la vita” (Liturgia bizantina,
Tropario di Pasqua).
La certezza dell’immortalità futura e la speranza nella risurrezione
promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire
e del morire ed infondono nel credente forza per affidarsi
a Dio:
“Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se
stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se
noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia
che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8).
Il cristiano sa che per risuscitare con Cristo, bisogna morire
con lui. Perciò si prepara, riflette sulla morte:
“In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come
se tu dovessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta,
non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano
dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei preparato
a morire, come lo sarai domani?” (Imitazione di Cristo 1,23,1).
Si può giungere a chiamare la morte “sorella”:
“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,/
da la quale nullu homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;/ beati quelli
ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,/ ka la morte secunda
nol farà male” (s. Francesco, Cantico delle creature; FF 263).
c. Vivere la morte - È importante
vivere il più degnamente possibile non solo il corso della
propria esistenza, ma anche vivere bene il momento della morte.
Momento che rischia di diventare di grande difficoltà per
atteggiamenti quali: solitudine, ribellione, risentimento,
tentativi di patteggiamenti, depressione, abbandono ad un
senso di perdita, smarrimento di significato.
Fortunatamente esiste pure l’atteggiamento dell’accettazione,
con cui si riesce a cogliere i valori di questo evento naturale
che - in un’autentica considerazione umana e cristiana - costituisce
il passaggio ad una vita che non ha fine.
Oggi l’esperienza del morire è forse più difficile che in
altri tempi. Non solo per quella illusione di onnipotenza
esistente nella cultura dominante, ma anche per le concrete
circostanze in cui ci si trova a morire. Non più in famiglia,
ma di solito in ospedale, nella solitudine, senza la comunicazione
che potrebbe sottrarre ai pericoli delle reazioni negative
sopra accennate.
La morte dev’esser vissuta con dignità umana: accettando la
propria sorte e rimanendo - per quanto è nelle forze umane
- consapevoli, col diritto di essere informati sulla propria
situazione. Evitando, da parte di chi assiste, gli errori
opposti di un silenzio evasivo o di una informazione violenta,
bensì trovando il modo di stabilire col paziente una relazione
tale che quest’ultimo divenga lui stesso capace di chiedere
informazioni sul suo stato e di trarne le conseguenze necessarie.
Dignità anche nel senso che devono essere evitati situazioni
e trattamenti troppo dolorosi e magari umilianti ed inutili.
La morte va vissuta anche in dimensione cristiana: credendo
nel Dio che accoglie chi si affida a lui e confidando nella
sua misericordia. Per questo è importante che il cristiano
possa ricevere, nella sua malattia ed anche nella sua agonia,
il conforto dei Sacramenti, che riconciliano e rafforzano
il morente nella prova finale.
7.2. La morte inflitta
Parlare in questi termini significa riferirsi innanzitutto
all’omicidio volontario. Nella cultura corrente, almeno occidentale,
è presente una mentalità favorevole a comportamenti “omicidi”,
quali ad es., aborto, eutanasìa, suicidio. Nel contempo tuttavia
sembra vada aumentando nell’opinione pubblica mondiale la
reazione a certe forme di intervento, più o meno motivate
anche dalla tradizione cristiana, quali la pena di morte e
la cd “guerra giusta”, a favore della non-violenza.
Del resto, il comandamento “non uccidere”, mentre indica il
confine estremo che non può mai essere valicato, spinge ad
un atteggiamento positivo di rispetto, promozione ed amore
per la vita, divenendo, così, espressione dell’amore del prossimo.
Tale comandamento, afferma Giovanni Paolo II, ha valore assoluto
quando si riferisce alla persona innocente:
“Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi
Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica,
confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere
umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina,
fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce
della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2,14-15), è
riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione
della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale”
(EvV 57: EV 14/2359; EF 1302).
La legittima difesa e la pena di morte richiedono quindi precisazioni,
coinvolgendo persone “colpevoli”.
a - La legittima difesa anche
attraverso la violenza è stata frequentemente giustificata
col principio del duplice effetto: dal gesto di difesa derivano
tanto la conservazione della propria vita (effetto buono),
quanto il ferimento o - in caso estremo - l’uccisione dell’attentatore
(effetto cattivo non direttamente voluto). Ci si è richiamati
pure all’amore verso se stessi, amore “naturale” e richiesto
quale termine di confronto dall’amore del prossimo (“Amerai
il prossimo tuo come te stesso”: Mc 12,31).
Il cristiano potrebbe anche rinunciare al diritto di difendersi,
non certo per uno scarso amore alla propria esistenza, ma
per un amore “eroico” che si rifa al Vangelo (cf. Mt 5,38-48)
ed alla donazione radicale di cui è esempio sublime Gesù stesso.
Tuttavia, la legittima difesa può essere non soltanto un diritto,
ma un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri,
del bene comune della famiglia e della comunità civile (cf.
C 2265; EvV 55: EV 14/2352; EF 1295).
Pur non rifiutando dunque il principio della legittima difesa,
la Chiesa è però andata progressivamente sempre più restringendone
le ipotesi di possibili applicazioni, anche “sociali”. Questo
appare specialmente nelle considerazioni sulla cd. guerra
giusta (cf. il discorso in moale sociale).
b - Quanto alla pena di morte
si registra, tanto nella Chiesa come nella società civile,
una crescente tendenza che ne chiede o un’applicazione assai
limitata o, assai diffusamente, una totale abolizione. Anche
negli orientamenti ecclesiali si constatano notevoli novità.
A questo riguardo l’Evangelium Vitae si colloca sulla linea
della pratica inapplicabilità di tale pena.
Per ogni pena - qualunque essa sia - si richiede infatti una
attenta valutazione e decisione sulla sua misura e qualità,
se si vuole che essa possa conseguire le proprie finalità
(riconosciute nella riparazione del disordine introdotto dalla
colpa; nella difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza
delle persone; e nello stimolo ed aiuto al colpevole per correggersi
e redimersi).
Non si deve perciò “giungere alla misura estrema della soppressione
del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè
la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi,
però, a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione
penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura
praticamente inesistenti” (EvV 56; EV 14/2354; EF 1297).
Di fatto, perciò, la pena di morte sembra inapplicabile. È
difficile infatti oggi immaginare che non esistano mezzi incruenti
per conseguire con più efficacia e con più rispetto della
dignità umana gli scopi della pena. La moderna società dispone
senz’altro di strumenti che, mentre rendono inoffensivo il
colpevole, non gli tolgono definitivamente la possibilità
di redimersi.
Inoltre, in ogni caso, si deve tener presente anche la possibilità
di errori - ed errori irreparabili! - che si possono compiere
applicando la pena di morte ad innocenti: questo contrasta
fortemente con il concetto della giustizia, che non deve mai
correre il rischio di uccidere un innocente.
Il problema va perciò inquadrato nell’ottica di una giustizia
penale sempre più conforme alla dignità dell’uomo e pertanto,
in ultima analisi, al disegno di Dio sull’uomo e sulla società.
L’attuale sensibilità etica, almeno nella Chiesa, corrisponde
senza dubbio meglio alle richieste del Discorso della Montagna
ed al messaggio complessivo della Bibbia che è un forte appello
al rispetto dell’inviolabilità della vita fisica e dell’integrità
personale.
c - La non violenza - La riflessione
teologica recente sottolinea sempre più il primato della radicalità
evangelica (“Non uccidere”) in materia di difesa della vita.
Primato che porta a valorizzare la non violenza attiva, e
quindi il rispetto dell’esistenza umana, tanto innocente quanto
colpevole.
In effetti, il nucleo profondo del Cristianesimo, il messaggio
del Vangelo va distinto dai rivestimenti culturali, forse
legittimi, ma che non ne condividono lo stesso peso e valore.
Il Vangelo stimola ad atteggiamenti nuovi fondati sulla pace,
la giustizia e la non violenza attiva.
Anche in situazioni di forte conflittualità sarà necessaria
una valutazione molto rigorosa della situazione, tenendo conto
del continuo sviluppo delle tecniche impiegate e della crescente
gravità dei pericoli implicati nel ricorso alla violenza (cf.
Congr. per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana
e liberazione, 22/3/1986, n. 79; EV 10/307). Anche la violenza
con cui si reagisce ad altra violenza può risultare un principio
di autodistruzione che, lungi dal guarire, aumenta il male.
7.3. Il suicidio
Se l’esistenza fisica - anche da un punto di vista puramente
umano - rappresenta un bene, un presupposto indispensabile
per ogni altro discorso sulla persona; e se l’uomo è immagine
di Dio, il suicidio è chiaramente illecito. Esso nega la “responsabilità”
fondamentale, che è garanzia di ogni altro valore. È un atto
gravemente immorale perché comporta il rifiuto dell’amore
verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di
carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si
fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo nucleo
più profondo costituisce un rifiuto della sovranità assoluta
di Dio sulla vita e sulla morte.
È un gesto così radicalmente negativo e così contrario alle
dinamiche esistenziali che, senza negare a priori ogni responsabilità
morale, si può immaginare che spesso gravi disturbi psichici,
l’angoscia od il timore grave della prova e della sofferenza
possono attenuare la responsabilità del suicida.
Oggi siamo chiamati a riflettere particolarmente
- da una parte sull’aumento del suicidio tra i giovani, e
persino tra bambini,
- e dall’altra sulla lettura ideologica di alcuni tipi di
suicidio, visti come espressione di protesta politica e sociale,
e quindi di amore di patria, di libertà o di giustizia.
Si va dunque estendendo il fenomeno dell’incapacità di percepire
un significato valido nell’esistenza e di dare un senso a
situazioni troppo penose. L’auto-soppressione non è forse
l’estremo tentativo di dare un significato umano ad una vita
umanamente senza senso?
In particolare, i suicidi “per una causa” politica, sociale
ecc. non assolutizzano forse una causa, dei programmi, delle
strategie... in veri e propri “idoli”, ai quali si deve sacrificare
tutto, compresa la vita? La vita propria ed altrui non viene
ridotta a semplice mezzo? Non tenendo anche conto come la
violenza risulti un metodo controproducente anche per la difesa
dei propri diritti.
I suicidi giovanili poi non rimandano come causa profonda
al disagio di fronte alla vita? Alla loro base stanno: carenza
di prospettive per il futuro; solitudine; noia esistenziale;
difficoltà di comunicazione e rapporti umani; cultura della
superficialità che relativizza tutti i valori; sottrazione
all’esperienza del “mistero” più profondo di sé, e specialmente
della presenza di Dio-Amore.
Le occasioni prossime possono essere le più diverse: delusione
amorosa, bocciatura, fatica della vita ordinaria... Il tutto
non può essere astratto dal contesto sociale. Sono chiamate
così in causa la famiglia e soprattutto la cultura dominante
che offre ai giovani concezioni distorte della libertà e pone
obiettivi alienanti: individualismo esasperato, carrierismo,
ricchezza...
Strettamente collegati al tema del suicidio sono l’utilizzo
di droghe e l’abuso di alcol: si tratta di veri fenomeni di
autodistruzione, di “forme sociali di suicidio” (cf. tabagismo
e psicofarmaci).
7.4. Eutanasia e cura del
malato terminale
a. La malattia inguaribile sfida alla medicina - I problemi
etici non si concentrano solo sul momento della morte, ma
anche su tutto il periodo che la precede. Se non si acquisisce
il senso della “vita da vivere” fino all’ultimo istante, che
conserva in tutte le sue fasi una qualità umana, l’etica si
rivela impotente a frenare la spinta verso soluzioni di tipo
eutanasico. Anzi, senza un progresso significativo nella gestione
della vita terminale, l’eutanasia rischia di apparire a molti
come la sola azione umana di fronte ad una situazione intollerabile.
La medicina è chiamata a riscoprire una funzione che ha svolto
nel passato, quando le sue capacità terapeutiche erano molto
ridotte: non solo alleviare i sintomi, ma anche accompagnare
verso la morte il malato che non può guarire.
Per designare questo aspetto dell’azione sanitaria si parla
oggi di “medicina palliativa”. Non si tratta di una medicina
parallela rispetto a quella curativa: è l’unica ed identica
medicina, in quanto commisura le sue cure alla situazione
clinica ed umana di un malato che sta andando inevitabilmente
verso la fine della vita. La medicina per chi muore pone l’accento
sul “prendersi cura”, sul rendere umanamente accettabile l’ultimo
segmento della vita.
b. Eutanasia (= “morte dolce”
o “buona morte”) - È necessaria innanzitutto una chiarificazione
terminologica: in senso vero e proprio essa va distinta dalla
rinuncia all’accanimento terapeutico e dal ricorso alle cure
palliative. L’eutanasia consiste in “un’azione o un’omissione
che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo
scopo di eliminare ogni dolore” (EvV 65: EV 14/2384; EF 1327;
cf. S. Congr. per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia,
5/5/1980 [IeB II]: EV 7/355).
Le modalità con cui si opera l’intervento non modificano il
contenuto specifico. La stessa terminologia può indurre confusione:
si può infatti parlare di:
- eutanasia attiva (meno propriamente: “diretta”) quando c’è
somministrazione o iniezione di sostanze tossiche in dosi
mortali o ricorso a strumenti di varia natura;
- eutanasia passiva (“indiretta”) quando c’è omissione di
soccorso, sospensione di terapie ordinarie e certamente utili.
L’eutanasia si situa dunque al livello delle intenzioni e
dei metodi usati.
Il giudizio morale non può che essere totalmente ed inequivocabilmente
negativo: esso dipende dal fatto che una tale pratica comporta,
a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio
(magari anche “assistito”: cf. EvV 66: EV 14/2389; EF 1332)
o dell’omicidio (cf. EvV 66. 72: EV 14/2390. 2410; EF 1333-1352),
che sono gravemente inaccettabili sotto il profilo morale.
L’inviolabilità della vita umana implica l’illiceità di ogni
atto direttamente soppressivo: infatti “l’inviolabilità del
diritto alla vita dell’essere umano innocente ‘dal momento
del concepimento alla morte’ è un segno e un’esigenza dell’inviolabilità
stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono
della vita” (DnV Intr. 4; EV 10/1167; EF 1557). Nessuna autorità
può legittimamente imporre né permettere un gesto omicida.
Esso costituisce infatti una violazione della legge divina,
un’offesa alla dignità della persona umana, un crimine contro
la vita, un attentato contro l’umanità” (IeB II; EV 7/356).
Anche se la responsabilità soggettiva, personale può risultare
diminuita in base alle circostanze, non può cambiare l’oggettiva
gravità, che è data dalla precisa intenzione di uccidere e
dall’uso di mezzi atti a far morire. E questo a prescindere
dai motivi con cui verrebbe giustificato il ricorso: egoismo;
motivi economici; “senso del dovere” da parte di certi medici;
“pietà”.
A questo riguardo “l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà,
anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’,
infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui
del quale non si può sopportare la sofferenza” (EvV 66: EV
14/2389; EF 1332).
Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano
la morte, infatti sono quasi sempre richieste angosciate di
aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato
ha bisogno è l’amore, il calore umano e spirituale, col quale
possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini:
parenti, amici, medici, infermieri (cf. IeB II; EV 7/357).
Alla base dell’accettazione dell’eutanasia è una concezione
della vita totalmente secolarizzata ed egoisticamente individualistica.
La vita ha valore solo se in buona salute, senza menomazioni,
“efficiente”. Mentre invece la persona è l’unica creatura
voluta da Dio per se stessa. Come tale, essa vale sempre.
Se già a livello razionale si può percepire come nessuno può
disporre di un potere assoluto sull’esistenza umana, a maggior
ragione ciò è affermato dalle grandi religioni, e particolarmente
dalla Rivelazione biblica.
Rimane senza dubbio il mistero del dolore e della sofferenza,
che pone alla ragione umana notevoli difficoltà, soprattutto
nel caso dei malati terminali. A questo riguardo la componente
di fede può risultare determinante: la Rivelazione presenta
Dio “compagno di viaggio” dell’uomo, proprio a partire dalla
sofferenza. Paolo vive la sua sofferenza in spirito di solidarietà:
“Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di
Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Il personale medico e paramedico - fedele al compito di essere
sempre al servizio della vita ed assisterla sino alla fine
- non può prestarsi a nessuna pratica eutanasica, neppure
su richiesta dell'interessato, tanto meno dei suoi congiunti.
Diverso è il caso del diritto a morire con dignità umana e
cristiana: questo è un diritto reale e legittimo, che il personale
sanitario è chiamato a salvaguardare, curando il morente ed
accettando il naturale compimento della vita. C’è radicale
differenza fra “dare la morte” e “consentire il morire”.
c. Accanimento terapeutico
- Pur consapevoli dell’ambiguità delle terminologie, possiamo
definirlo come quell’insieme di iniziative clinico-assistenziali
di carattere piuttosto eccezionale attuate su un malato terminale
allo scopo di rallentare l’avvicinarsi della fine, pur sapendo
che ormai tali iniziative non costituiscono più delle vere
e proprie terapie.
Si può parlare di “accanimento”, anziché di “doveroso comportamento
di assistenza” perché il malato chiede (avendone diritto/dovere)
una giusta terapia: alimentazione, trasfusioni, iniezioni...;
affidandosi alla medicina, affinché lo porti a vivere un’esistenza
più serena. Se però i trattamenti particolari risultano inattivi
e inutili, anzi dannosi, il malato può chiedere legittimamente
la sospensione di un trattamento che non è più terapìa.
Si tratta, evidentemente, di operare una valutazione complessiva
del suo maggiore interesse vitale, di “mantenere il senso
della misura di fronte alle risorse tecniche, di non agire
in maniera irragionevole, di comportarsi secondo prudenza”
(P. Cons. “Cor Unum”, Doc. Dans le quadre. Questioni etiche
relative ai malati gravi e ai morenti [27/6/1981] 3.2: EV
7/1254).
Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare,
ma tale dovere deve misurarsi con le situazioni concrete;
occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione
siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive
di miglioramento (cf. EvV 65: EV 14/2385; EF 1328).
In passato i moralisti affermavano che non si è obbligati
all'uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però questa affermazione,
sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno
chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi
progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare
di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”.
In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a
confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di
rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità
di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare,
tenendo conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze
fisiche e morali.
Questi principi generali sono suscettibili di precisazioni:
- In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il
consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla
medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale
e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato
potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.
- Quando i risultati deludono le speranze riposte in tali
mezzi, è anche lecito interrompere l’applicazione di tali
mezzi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener
conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari,
nonché del parere di medici veramente competenti.
- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina
può offrire. Non si può quindi imporre l’obbligo di ricorrere
ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, non è ancora
esente da pericoli ed è troppo oneroso. La rinuncia a mezzi
straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia:
esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di
fronte alla morte, o il desiderio di evitare la messa in opera
di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si
potrebbero sperare, o la volontà di non imporre oneri troppo
gravi alla famiglia o alla collettività. È chiaro che in tale
decisione il malato potrà essere aiutato da coloro che lo
rappresentano (parenti, amici, conoscenti) e che il medico
curante assume una particolare responsabilità.
- Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi
usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare
a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento
precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere
le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.
La sospensione di trattamenti eccezionali (“sproporzionati”)
infatti non deve significare abbandono del malato. La cura
medica deve continuare gli interventi “normali” (nutrizione,
idratazione…), ma anche saper applicare rimedi antisofferenza
ed antiangoscia; facilitare contatti con parenti ed amici;
aiutare a vincere non solo il dolore, ma anche la paura.
d. Uso degli analgesici nei
malati terminali (cf. IeB III: EV 7/358-363; EvV 65: EV 14/2386;
EF 1329) - Il ricorso ai farmaci antidolore ed antiangoscia
fa riferimento a dosi forti e continue di analgesici, sedativi
e narcotici, che possono provocare uno stato di torpore.
A questo riguardo, alcuni cristiani possono provare il desiderio
di moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente
almeno una parte delle loro sofferenze ed associarsi così
in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso.
Non sarebbe tuttavia prudente imporre come norma generale
un determinato comportamento. Al contrario, la prudenza suggerisce
per la maggior parte degli ammalati l’uso di medicinali atti
a lenire o sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare
come effetti secondari torpore o minore lucidità.
L’uso intensivo di analgesici non è però esente da difficoltà.
Se si prevede che l’uso abbrevi la vita, esso è lecito se
non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò
non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi o morali.
Per quanto concerne il privare l’ammalato della coscienza
di sé, esso non è lecito senza grave motivo: è molto importante
infatti che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro
doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche
e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro
con Cristo.
e. In conclusione va affermato
il diritto del malato a morire con dignità. È questo un aspetto
della “qualità della vita”, un diritto fondamentale. Cristianamente
si deve riconoscere che “se da una parte la vita è un dono
di Dio, dall’altra la morte è ineluttabile; è necessario,
quindi, che noi, senza prevenire in alcun modo l’ora della
morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra
responsabilità e con tutta dignità. È vero infatti che la
morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma allo stesso
tempo apre la via alla vita immortale. Perciò tutti gli uomini
devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani,
e i cristiani ancor più alla luce della loro fede” (IeB Concl.;
EV 7/372).
Chi si dedica alla cura degli ammalati e dei moribondi metta
a loro servizio tutta la propria competenza; ma si ricordi
anche di prestar loro il conforto ancor più necessario della
carità. Tale opera è prestata al Signore stesso che ha detto:
“Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
8. L’uomo e il suo ambiente
Rimandiamo al ricco contributo
di A. Bonandi, nel testo-guida del corso: L. Melina (ed.),
L’agire morale del cristiano, Jaca Book, Milano 2002, 185-223.
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